
Alejandro Valverde è come Sean Connery
21/04/2022Disse Michael Caine che c’era solo una cosa che invidiava a Sean Connery: il fatto che l’età, ogni anno che passava, fosse per lui un’aggiunta di fascino e non una passo in più verso il decadimento fisico. Aggiunse che non “era una cosa tipo ‘Il curioso caso di Benjamin Button‘ di Francis Scott Fitzgerald, sarebbe troppo semplice e scontato. È qualcosa di più complesso: non ringiovaniva, invecchiava come tutti, ma questo invecchiamento era un accumularsi di esperienze che lo rendeva migliore”.
Non succede spesso nella vita. Succede ancor meno nello sport, figurarsi nel ciclismo. Sarebbe un bel teorema, di quelli che ti danno certezze. E certezze le dà, a patto di non tenere in considerazione Alejandro Valverde.
Alejandro Valverde non è diverso dal Sean Connery raccontato da Michael Caine. Neppure lui, la sua storia ciclistica, ha a che fare con Benjamin Button. Tutto il contrario. Non ringiovanisce, ogni anno che passa il suo viso invecchia di almeno tre, e pure la sua pedalata è diversa, il suo modo di correre. Era un corridore essenziale, chirurgico, di quelli talmente essenziali e chirurgici che non consideravano mai la mattata come un’ipotesi. Gli anni lo hanno reso propenso ad accettare il rischio di perdere, ne hanno allungato il tiro dello scatto, gli hanno concesso la facoltà di concedersi il lusso di sbagliare, di rischiare di non cogliere niente cercando di afferrare l’improbabile. In molte parti del globo, in tante corse, a tappe o di un giorno che fossero.
Solo in una non si è mai concesso nient’altro che l’essenziale: la Freccia Vallone. La conosce bene la Freccia Vallone, sa benissimo cosa si deve, ossia aspettare e attaccare al momento giusto, e cosa non si deve fare, ossia tutto il resto, sperare in un’altra soluzione alla volata ascensionale.
Lo ha fatto pure mercoledì 20 aprile. A cinque giorni dal suo quarantaduesimo compleanno. Secondo alle spalle di Dylan Teuns. Secondo e a testa bassa, perché il Muro di Huy è una pugnalata che fa male, leva il fiato, azzera le forze e solo il primo trova quelle per staccare le mani dal manubrio. Secondo e staccato del giusto, cioè poco, ma che è comunque troppo. Almeno per uno come lui. Perché in questo non è cambiato, e l’età non gli ha fatto cambiare idea. Il secondo posto è peggio dell’essere primo e lui vorrebbe sempre il meglio. Vuoi mettere che storia sarebbe stata salutare per l’ultima volta il Muro di Huy con tutti alle spalle.
Sarebbe stata effettivamente una gran storia, una di quelle che ti fanno dire cose tipo te la ricordi quella volta che Valverde… Lo si dirà, questo è certo. Ma ciò che seguirà questo incipit non sarà ciò che lui sotto sotto sperava. Si spera mai di arrivare secondi. Non almeno uno come Alejandro Valverde. Non almeno in quella corsa.
È dal 2005 che Alejandro Valverde sale nelle Ardenne e attacca alla maglia il numero di gara alla partenza che era a Charleroi e che ora vaga alla ricerca di una stabilità che non trova.
Quel giorno, quel 20 aprile del 2005 tutto era nuovo per lui. C’era mai salito in Belgio prima, aveva sentito tanto parlare, s’era fatto la bocca con l’Amstel Gold Race, ma non è lo stesso. Aveva il 195 sulla schiena quel giorno, sognava di salire almeno una volta sul podio di queste corse che a lui, spagnolo, sembravano così austere. Finì trentanovesimo.
L’anno dopo era già avanti a tutti in cima al Muro di Huy.
La Freccia Vallone del 2006, la prima vinta da Alejandro Valverde
Era un equivoco continuo allora Alejandro Valverde. Nei primi anni nessuno capiva che tipologia di corridore fosse. Un corridore da corse a tappe? Lo aveva subito dimostrato con il terzo posto alla Vuelta nel 2003 e il quarto l’anno successivo. Ma non era solo questo. Uno buono anche per le classiche? Un più che velocista che reggeva bene in salita, ma che non sarebbe mai stato in grado di vincere un giro di tre settimane (la Vuelta del 2003 e quella del 2004 non erano proibitive)? Oppure uno scalatore con un ottimo spunto veloce? In Spagna si interrogavano e non trovavano risposte.
Alejandro Valverde era forse semplicemente un corridore à la Valverde. Cioè buono a tutto. Come dimostrò la doppietta Freccia-Liegi nel 2006.
La Spagna si attendeva l’inizio di un dominio, una scalata regolare al vertice del ciclismo, tipo quella che aveva fatto Miguel Indurain poco più di un decennio prima. Ma Valverde non era quel tipo di corridore.
Perché Valverde maturava a modo suo, calcolando e analizzando troppo. Si perdeva, si riprendeva, vinceva per capacità di gambe e analisi, perdeva per troppa analisi o attendismo. In ogni caso era sempre lì, a volte vincitore, comunque tra i primissimi.
Una cosa iniziò a chiarirsi: Alejandro Valverde aveva bisogno di correre. Più correva, meglio andava. Ogni chilometro fatto lo migliorava, ne rivelava qualcosa di diverso che sino a quel momento non era uscito del tutto.
La squalifica per il coinvolgimento nell’Operación Puerto (quella legata alle pratiche di emotrasfusione e utilizzo di Epo da parte del dottor Eufemiano Fuentes) – coinvolgimento per altro mai del tutto chiarito davvero un po’ per reticenza della federazione spagnola e un po’ per la confusione delle prove raccolte (e non solo nel suo caso) da parte delle forze dell’ordine spagnole – rallentò questa comprensione di se stesso.
Era sempre lì, ma non vinceva più come prima della squalifica. Aveva trent’anni, qualcuno diceva che iniziava per lui la fase discendente, qualcun altro avanzava le solite accuse, il solito dire era tutto chiacchiere e doping.
Doveva soltanto riprendere le misure a se stesso.
Lo rifece alla Freccia Vallone del 2014. Primo. Iniziò il suo dominio sul Muro di Huy: quattro vittorie di file. E due Liegi-Bastogne-Liegi a impreziosire il tutto.
La Freccia Vallone e Alejandro Valverde
Nel 2018 quando in cima al Muro di Huy fu preceduto da Julian Alaphilippe sembrò il primo segnale di cedimento. A trentotto anni era tempo di pensione, venne scritto. A Innsbruck si laureò campione del mondo.
L’undicesimo posto nella Freccia del 2019, sembrò l’evidenza che il suo tempo tra i professionisti fosse prossimo a concludersi. Non era così neppure quella volta.
Alejandro Valverde continuò e si trasformò di nuovo. Iniziò a non disdegnare la mattata, la ricerca dell’azione da copertina. E non per la disperazione che a volte colpisce i campioni che vedono avvicinarsi il ritiro. Non c’era disperazione in lui, solo voglia di capire cosa si era perso. Vinse poco, ma non era più necessario, avrebbe cambiato poco un successo in più.
Nel 2020, mentre gli scorreva sotto le ruote la sua peggior stagione in carriera, disse che aveva pensato al ritiro, ma che non aveva la controprova, voleva mettersi ancora alla prova in Belgio, voleva capire se fosse ancora pronto per il Muro di Huy e per le côtes. Non poteva chiudere senza averci corso un’ultima volta. Fece terzo alla Freccia e quarto alla Liegi nel 2021. Si concesse un altro anno, l’ultimo.
La sua Freccia Vallone, che è veramente sua visto che nessuno ha fatto meglio di lui nella storia di questa corsa, l’ha salutata dal secondo gradino del podio a cinque giorni dai suoi quarantadue anni.

Viene da chiedersi se rispetterà davvero le promesse che si è fatto. Certo chiudere così una carriera del genere non è affatto male. Ma chiudere è sempre difficile. Il dopo fa sempre paura. E il dopo può essere sempre rimandato.
Articolo impeccabile che rappresenta molto bene la parabola straordinaria di questo inimitabile campione. Alejandro Valverde è sicuramente il corridore più longevo ad alti livelli della storia. Nessuno ha i risultati che ha conseguito il murciano dai 34 ai 42 anni (dal 2014 al ’22).