Uno, dieci, cento Alexander Kristoff

Uno, dieci, cento Alexander Kristoff

13/04/2022 0 Di Giovanni Battistuzzi

Alexander Kristoff è un inganno. Lo è sempre stato. Sembra un gigante, ma è un metro e ottantatré, ci sono corridori ben più alti. Sembra pesante, ma di ciclisti che superano i suoi settantotto chilogrammi ce ne sono parecchi. E sembra sempre con qualche gobba di troppo sul ventre, eppure è lì davanti quando conta, quando serve, quando non se ne può fare a meno.

Soprattutto a molti è sembrato sempre un piazzato, ma ha vinto, e vinto parecchio. E a chi lo pensava finito ha fatto rimangiare il giudizio. Lui c’è ancora, sempre lì, sempre alla maniera di sempre. Cioè testardamente veloce e resistente. Uno che è meglio non averci nulla a che fare negli ultimi chilometri di corsa.

Lo ha dimostrato anche quest’anno. Si è messo alle spalle tutte in volata alla Clasica de Almeria a febbraio. Ha disintegrato la corsa alla Scheldeprijs in aprile. Ha fatto la differenza sulle pietre, lì ha abbandonato la compagnia di tutti, è rimasto solo e solo è arrivato sotto lo striscione di arrivo di quella che doveva essere la semiclassica del Nord per i velocisti.

Alexander Kristoff un velocista lo è sempre stato, o almeno così è nato, veloce e sprintante. Ma quello è stato solo uno dei suoi volti, delle sue tante anime. Perché Alexander Kristoff è tante cose, ha tante facce. Veloce sì, ma non solo quello. Uomo da volatona di gruppo sì, ma anche capace di fregarsene dell’attesa dinamica di uno sprint, di avventurarsi in solitaria. Uomo da rettilinei finali, ma capace di trovarsi a proprio agio su strappetti e pavé. Soprattutto sul pavé.

È veloce Alexander Kristoff, lo è sempre stato e lo è ancora. È anche, e soprattutto, un resistente, uno che non ha paura di niente, un Die Hard, duro a morire. Perché prima che uno come lui possa alzare bandiera bianca, deve succedere il finimondo. E spesso il finimondo non basta.

Se c’è una cosa sicura è che quando corre Alexander Kristoff quando serve c’è sempre. A volte vince, le altre volte è sempre lì, a qualche metro dal vincitore.

Ottantaquattro vittorie dal 2008, anno nel quale ha iniziato a confrontarsi con i professionisti, a oggi. Ottantaquattro vittorie in tre continenti, distribuite tra classiche, semiclassiche e corse a tappe. Tra volate e azioni solitarie. C’è di tutto nel pedigree di Alexander Kristoff.

C’è soprattutto un pedigree di corridori tenuti alle spalle che tiene assieme gran parte del meglio delle volate e delle corse d’un giorno dell’ultimo decennio (abbondante di ciclismo). Perché è vero che Alexander Kristoff ha vinto parecchio in Norvegia, nelle gare di casa, ma anche lì, come altrove, ha spesso messo in fila tanto del meglio che il ciclismo aveva e ha da offrire. Da Peter Sagan in giù.

E ovunque uno della sua stazza poteva andare forte, specialmente nelle Classiche, in un certo tipo di Classiche, Alexander Kristoff c’era sempre, a volte avanti a tutti – come nella Milano-Sanremo del 2014 o nel Giro delle Fiandre del 2015 -, molte e molte altre tra i primi ad arrivare al traguardo. E ogni volta generando quella sensazione di sorpresa ah, c’è pure Kristoff. Sì, c’è pure Kristoff.

Alexander Kristoff non si è mai fatto cruccio per questo. È persona che bada al sodo, che non ha bisogno d’altro se non sé stesso, sua moglie, i suoi quattro figli e la sua bicicletta. E della sua Norvegia. Che senza non ci sa stare. Lì torna quando serve, e servirebbe di più, disse nel 2018. Fosse per lui correrebbe solo in Norvegia. C’aveva pensato due anni fa. Poi era arrivata la stagione delle pietre e non ha resistito. Che a una certa stagione si può far altro che incrociare le strade di Fiandra.

Strade che pensava poca adatte a lui. Le aveva snobbate all’inizio, l’avevano snobbato all’inizio. Salvo poi ricredersi. E alla prima occasione. Lui e gli altri. In quelle strade, su quei muri scomodi e irti sembrava esserci nato e cresciuto. Quindicesimo alla prima occasione alla Ronde, era il 2012.

Le pietre gli sono erano sempre piaciute. Il pavé lo aveva sempre attirato, tanto da fargli dire, era il 2010, “la Parigi-Roubaix è una gara che vorrei correre, è quella che sogno di correre e magari di vincere. Devo ancora capire che corridore sono però, se il pavé si può adattare a me, o meglio se posso adattarmi io a lui”. Perché in fondo è sempre così, alle pietre ci si adatta sempre, accade mai il contrario.

Verso Roubaix Alexander Kristoff era partito con entusiasmo e speranza. La campagna francese l’aveva rimbalzato subito: due ritiri nel 2010 e nel 2012. L’aveva poi illuso: nono nel 2013, decimo nel 2015. Poi l’ha abbandonato. Vuoi per una cosa, vuoi per l’altra è mai riuscito a essere protagonista davvero.

Lui ora non ci pensa, dice che è acqua passata. Il passato però non si scorda mai del tutto, refluisce sempre. E Alexander Kristoff è uno pratico, uno che sa che quello che la bicicletta dà bisogna accettarlo sempre.