
Andrei Tchmil è sempre stato una resistenza
28/02/2022Tchmil va a combattere in Ucraina. Ha chiamato Museeuw per annunciarglielo. È rimasto l’epifania che ci fa trattenere il respiro
Ancora oggi pronunciare Vladivostok porta con sé un sommarsi di non detti che equivalgono a un concetto semplice: qualcosa di lontanissimo, un altro mondo.
Vladivostok è però un posto a suo modo centrale, fa parte di un immaginario condiviso, quasi familiare, qualcosa che si conosce senza nemmeno doverci andare. È frontiera geografica, ma non del tutto culturale perché a ogni “nemmeno Vladivostok”, a ogni “per noi pionieri era come dire Vladivostok”, ce la rende viva, se non vicina, quanto meno avvicinata.
Mica come Chabarovsk, che da Vladivostok è a un amen, settecento chilometri, almeno a far i conti con le distanze russe.
Chabarovsk è frontiera vera, che la Cina la si può quasi odorare. Chabarovsk è come Vladivostok, ma senza neppure un immaginario comune.
Andrei Tchmil a Chebarovsk c’è nato, e di Chebarovsk ha sempre portato in giro per le strade d’Europa e del mondo qualcosa, quel senso di inquietudine che lo rendeva arcigno anche per uno come Nikolai Morozov, per oltre trent’anni uno dei direttori sportivi che hanno fatto la storia del ciclismo russo.
Nikolai Morozov, che Tchmil lo portò in Italia a correre con la Alfa Lum nel 1989, diceva che “Andrei aveva un ardore sincero, una forza dirompente che non lo faceva mai stare fermo, a dissipare energie per entusiasmo e voglia di fare. Poteva vincere molto molto di più. Però quello come ha vinto quello che ha vinto, beh, a ripensarci basta e avanza”.
Andrei Tchmil in bicicletta era un’epifania. Compariva e non si poteva non notarlo. Non era stilisticamente bello, non era uno scalatore, non era un velocista, non eccelleva a cronometro, ma aveva una tenacia utopica, era una resistenza a pedali.
Amava la scomodità, soprattutto quella delle pietre, continua a dire che sono la cosa che più si avvicina alla sua testa. Si può mica resistere al pavé quando il pavé è dentro di te. E quando pedalava non aveva timore di niente e di nessuno e se gli si lasciava cento metri lui se li faceva bastare e i problemi erano degli altri. Strappò al gruppo una Sanremo per quei cento metri.
Tchmil è sempre stato inquieto in bicicletta e nella vita. Ha girato il mondo non solo su di una bicicletta, anche nei documenti. Prima russo, poi moldavo, quindi ucraino, infine belga. Che a lui della bandierina vicina al suo nome gli fregava il giusto, “il mondo lo puoi pedalare in lungo e in largo su di una bicicletta e quando pedali i documenti servono fino a un certo punto”, disse nel 2000 qualche mese dopo la sua vittoria al Giro delle Fiandre da cittadino belga.
Tchmil non è mai stato uno che ha parlato tanto, faceva con in gruppo, cercava di sparire, poi quando nessuno se lo aspettava più compariva, battagliava, non mollava nemmeno contro l’evidenza. Due anni fa se ne uscì così: “Cari amici, 20 anni fa ho vinto la gara dei miei sogni. Ora, vent’anni dopo, ho dovuto combattere un altro avversario, che sembra imbattibile, che silenziosamente vi mangia dentro: il cancro”. Lo disse a terapia conclusa, come fosse solo un altro muro in pavé che si era trovato sotto i palmer.
Nel 2002, quando annunciò il ritiro qualche mese dopo una brutta caduta alla Tre giorni di La Panne, disse di non essere rammaricato per non aver vinto quanto avrebbe voluto, ché “ho trovato sulla mia strada gente tosta, gente che sulle pietre erano il massimo e non solo di questi anni, gente come Franco Ballerini, gente come Johan Museeuw.
Non erano parole di circostanza. Il rispetto per il belga è sempre stato enorme, il loro rapporto era leale e amichevole.
Andrei Tchmil domenica ha chiamato Johan Museeuw per salutarlo. Un saluto importante perché si sa mai. “Questa mattina ho mandato mia moglie e nostro figlio di un anno in Romania per proteggerli. Io vado a combattere. Volevo solo sentirti per un momento, Johan. Non so se ci sarò domani o dopodomani, lo spero, ma ti do un bacio grande”.
L’uomo Tchmil non è diverso dal corridore. È rimasto quell’epifania che appare e ci lascia con il sospiro in attesa. Era una resistenza a pedali, si trasformerà in resistenza militare, cercherà di trasformarsi nella nemesi di se stesso: cercherà di far fuggire per una volta.