L’apparizione di Michele Scarponi

L’apparizione di Michele Scarponi

22/04/2021 1 Di Giovanni Battistuzzi

Il cielo era una tavola macchiata di grigio che tendeva all’arancione, figlio di un tramonto che stava per dare alla città una sera come tante. Una bava di vento faceva svolazzare qualche cartaccia, dono che l’uomo quotidianamente offre alle strade di Roma. Due macchine rombavano lontano, a infastidire una calma che il quartiere cercava di conquistarsi, quella che da un anno lo avvolge più o meno costantemente da quando il normale di un tempo sembra essere diventato lontano come i ricordi d’infanzia.

Un manipolo di vecchi chiacchierava storto sul marciapiede nascosto dalle fronde degli alberi che da anni gradirebbero una potatura e dalle solite auto bozzate parcheggiate alla rinfusa e alcune chissà da quando. Un uomo sulla cinquantina fumava il sigaro mentre il cane annusava qua e là tracce di altri cani che lì avevano alzato la gamba.

Tutto era fermo, tutto sembrava una pellicola di polaroid nella quale si stava per formare un immagine.

Sulla strada in leggera in salita due macchie di colore apparvero all’orizzonte. Due macchie che metro dopo metro si trasformavano in figure, in sagome, in immagine sempre più nitide. Immagini in movimento, ma lento e silenzioso. Due biciclette. Una blu, l’altra rossa. La prima cavalcata da un bambino secco e ciondolante, ancora incerto, ma già sui pedali, pedali che spingeva come fossero un meccanismo di pura gioia. Lo sono, anche se a volte non vogliamo farci caso. Dietro un uomo, anche lui secco, seduto sul sellino, gambe larghe alla maniera di un Escartin. Un naso adunco che ricordava il ciclismo di tempi andati. Osservava la miniatura di sé pedalare, il suo alzarsi sui pedali, il tentativo di scattare in quello che gli doveva apparire un piccolo Mortirolo.

Una voce. Un ciao Franco urlato romanamente. Un cenno con la mano. Un come va? anch’esso urlato romanamente. La voce diceva si va avanti, ‘nzomma, er solito. L’uomo che rallentava, che abbassava il tono della voce, confabulava.

Il bimbo si faceva sempre più nitido, continuava a pedalare incurante del piede a terra del padre. Aveva una maglia azzurro cielo d’estate, una macchia gialla su di una manica. Una scritta sul petto Astana. Gli stava larga, parecchio larga. Poco, male ci sarebbe cresciuto dentro.

L’uomo distolse lo sguardo dal signore con cui stava chiacchierando, cercò il bambino con lo sguardo. Lo vide avanti, molto avanti, troppo avanti. Salutò, si alzò sui pedali, ricorse, gridando: Michele, Michele, fermati. Michele, Michele, fermati, come fosse un’eco.

Michele girò la testa all’indietro, gli rispose squillando: vediamo se riesci a prendermi. Una sfida. Il padre rientrò, prese il fuggitivo, gli tirò un orecchio. Il bimbo si fermò, imbronciato, pronto a piangere, ma non lo fece. Si sistemò la sua maglia azzurra color del cielo d’estate. Trattenendo le lacrime se ne uscì con un quando sarò grande e tu sarai vecchio non riuscirai a prendermi più.

Il bimbo Michele aveva tentato la fuga. Chissà se lo sa che il nome che porta e quella maglia che aveva addosso erano stati per tanti una passione e un ricordo, una lacrima per una fuga di troppo. L’ultima. Quattro anni fa, oggi.