Quando l’inverno per i ciclisti era in Italia

Quando l’inverno per i ciclisti era in Italia

08/12/2021 1 Di Giovanni Battistuzzi

Tutte le squadre professionistiche si troveranno in Spagna per dare il via alla stagione 2022. Le auto e l’insicurezza stradale stanno facendo perdere al paese una grande occasione (anche economica)


Nel soggiorno della sua casa di Sabaudia, Raffaele Pasinato ogni tanto si ferma ancora a osservare quello che sa che non tornerà più. Decenni e decenni attaccati al muro poco sopra le uniche due biciclette che non usa più. E che non ha mai usato. La motivazione è semplice: “Non ne sono degno”. Una arancione e una gialla. Sulla prima ci pedalò Eddy Merckx, sulla seconda Marco Pantani.  

Anche le facce sorridenti di Merckx e Pantani fanno capolino tra foto incorniciate e disposte ordinatamente quasi fosse una cronistoria ciclistica. Volti di campioni e gregari, primi piani e figure intere, ritratti di coppie e di gruppo. E un unico comune denominatore: il suo viso che da adolescente raggiunge la maturità e poi la supera, sommando uno dopo l’altro i segni del tempo, dell’esperienza, delle cose viste e fatte. 

“L’estate era il tempo del lavoro: diciotto-venti ore al giorno. L’inverno quello del piacere. Anche quando l’albergo era aperto. Anzi. Soprattutto quando l’albergo era aperto. Perché si apriva solo per loro, per i ciclisti. Ed era magnifico”. 

Per Raffaele Pasinato non c’era nulla di più bello. “Perché ad andare indietro coi ricordi non riesco a isolarne uno senza una bicicletta. Ho iniziato a pedalare poco dopo aver iniziato a camminare. Ma questo non me lo ricordo davvero. Me lo raccontò mia madre. In tutti gli altri, quelli belli almeno, accanto a me c’era sempre una bicicletta. Pure al matrimonio”. 

Prima come mezzo d’esplorazione del mondo. Strada dopo strada, paese dopo paese. E poi le colline e l’orizzonte che nuovo che sino a pochi chilometri prima era precluso. Poi come via per inseguire il sogno, quello di diventare ciclista: “Arrivai nei dilettanti, ero un discreto passista, uno con un buon spunto veloce. C’era un solo problema: non abbastanza veloce. Ero un piazzato, ma da doppia cifra: decimo, undicesimo, quindicesimo e via così. Smisi quando mi accorsi che del ciclismo non avevo bisogno, che potevo pedalare e basta. Da allora non mi sono più messo un numero di gara sulla maglia. Nemmeno per una granfondo: non sento il bisogno della competizione”.

Il ciclismo lo conquistò comunque. A suo modo. “I miei gestivano un albergo. Apertura solo estiva però, l’inverno lo si passava dai nonni, su nell’Altipiano di Asiago, o qui a Sabaudia a sistemare cose”. 

Poi arrivò il sessantotto pure a Sabaudia e fu una rivoluzione. Ma senza armi, a pedali. “A inizio dicembre del 1967 mi chiama un amico che era andato in Belgio a cercare fortuna e un po’ di fortuna era riuscita a costruirsela. Mi dice che un suo amico, Guillaume Driessens ha in mente di scendere in centro Italia coi suoi corridori per svernare un po’ a gennaio. L’offerta è buona, il lavoro tutto sommato non troppo. Accetto”. 

I belgi della Smith’s rimasero dieci giorni. Dieci giorni di pedalate, di mangiate, di giri qua e là e di grosse dormite. Dieci giorni di tentativi di francese stentato, di intese a gesti. “Legai soprattutto con Frans Brands, persona seria e intelligente, con un’ironia un po’ particolare ma decisamente piacevole. Ripassò parecchie volte qui anche dopo aver smesso di correre. Veniva di primavera. Il mare lo preferiva in quella stagione. Non ho mai capito come facesse a farsi il bagno ad aprile”. 

Dieci giorni che diventarono dieci anni e poi venti e trenta e oltre.  

“Trentacinque anni di ritiri, di campioni, di gregari, di storie di uomini in bicicletta. C’è stato un momento che tra Sabaudia e Terracina c’era il centro di gravità del ciclismo mondiale. E le strade erano piene di biciclette e fuori dall’albergo c’erano curiosi e tifosi, giovani e vecchi e si beveva e si giocava a carte come fosse estate, ma con la voce più bassa perché i ragazzi dovevano riposarsi”. 

Diapositive stinte, coperte dalla polvere, tramutatesi a tal punto da non essere sicuri che fossero davvero esistite. “Eppure non sono passati nemmeno vent’anni. Certo vent’anni sono un bel po’ di tempo. I corridori di allora hanno cambiato vita. Qualcuno non c’è neppure più. Non c’è più Frans e non c’è più Marco Pantani, una persona gentile, simpatica, brillante, uno che ho apprezzato non solo come corridore, ma soprattutto come uomo. Un giorno lo portai a caccia con me. Lui per ringraziarmi mi regalò una bicicletta. Non ho mai avuto il coraggio di pedalarci. Non ne ero degno”. 

C’è più niente di quel mondo.

Nemmeno più quell’albergo. “Demolito qualche anno fa. Io l’avevo ceduto diversi anni prima, i nuovi proprietari hanno pensato bene di farci altro. Si può mica fermare il tempo. E neppure l’imbarbarimento. Sino agli anni Novanta svernare in bicicletta qui era ancora possibile. Ora chi glielo fa fare a una squadra ciclistica di portare in Italia i loro corridori. Clima e costi non c’entrano. C’entrano le strade, la cattiveria e la sfrontatezza di chi guida”. Ne sanno qualcosa i corridori della Bora-hansgrohe che l’anno scorso vennero investiti nei pressi del lago di Garda

“Abbiamo perso una grande occasione. Un’occasione che poteva essere ghiotta. Ci sono un sacco di persone che vorrebbero fare del cicloturismo. E qui sarebbe stato perfetto. I posti sono stupendi, il mare bello, il clima adatto. Si poteva allungare la stagione lavorativa da aprile/maggio a ottobre. E invece…”. 

E invece le squadre ciclistiche se ne vanno in Spagna e in Italia arrivano meno cicloturisti di quelli che vorrebbero pedalare qui. 

Tutte le compagini del World Tour inizieranno la stagione (tra dicembre e gennaio) muovendosi verso la penisola iberica, pedaleranno tra Comunità valenciana e Catalogna, tra Canarie e Baleari. Questione di sicurezza delle strade, di attenzione degli automobilisti. Questione di attenzione per i cambiamenti della mobilità nelle città e fuori da esse.

Ma non solo: anche di furbizia imprenditoriale.

Nelle coste meridionali della Spagna il 91 per cento degli alberghi ha ambienti dedicati alle biciclette, il 79 per cento dà la possibilità di portarle in camera, il 51 per cento ha piccole (a volte basilari) ciclofficine a servizio dei clienti per dare a loro il modo risolvere i problemi più comuni. 

“I ciclisti sono ottimi clienti. E non solo per gli albergatori. Anche e soprattutto per l’economia locale. Chi fa vacanze in bicicletta è solitamente benestante e il costo di gestione del mezzo è infinitamente inferiore a quello di una macchina. Questo vuol dire che hanno soldi da spendere. E li spendono in cibo, in vino, in cene. Insomma si tolgono quelli sfizi che poi sono quelli che tengono davvero in piedi le località turistiche. E non solo quelle”, sottolinea Raffaele Pasinato. 

Politica e albergatori però sembrano non averlo intuito. Nel Pnrr non ci sono soluzioni che facilitino un cambio di rotta. La revisione del codice della strada non ha cambiato praticamente nulla per i ciclisti: ignorati lo erano, ignorati lo sono ancora. E una grandissima parte dell’imprenditoria alberghiera se ne frega delle biciclette. Sia quelle dei professionisti che quelle dei cicloturisti. 

“Ho avuto un albergo per oltre trent’anni. Sono stato fortunato. Mi sono garantito una buona pensione. Ho avuto la fortuna di conoscere molti dei miei miti ciclistici. È stato bello, molto bello. Ora non potrei fare quello che ho fatto. È un peccato”.