
Mondiali ciclocross. van der Poel, van Aert: l’arte dell’esserci
07/02/2023C’è una sostanziale differenza tra l’esistere e l’esserci. Si è per qualcuno, per almeno uno, un altro. Non è scontato esserci, perché anche quando si dice, o meglio si proclama, perché in farti casi si proclama sempre, ci sarò, va poi rispettato tutto questo e molte volte va mai davvero così. Basterebbe guardarsi indietro e con mente onesta per ricordarsi quante volte, e non solo quando, non ci siamo stati pur avendo proclamato di esserci per qualcuno. Mathieu van der Poel e Wout van Aert probabilmente non hanno mai proclamato l’uno all’altro d’essersi l’uno per l’altro. Anzi. Soprattutto nel ciclocross. Hanno sempre fatto, fanno, di tutto per distanziarsi il più possibile e il prima possibile, perché una vittoria è più vittoria senza l’altro inquadrato nella foto, vista la quantità di foto nelle quali sono uno affianco all’altro, anche se in realtà uno dietro l’altro, ma si sa la prospettiva schiaccia e tra loro finisce spesso, quando finisce così, che non ci sia tra i due un distacco sufficiente per finire davvero uno dietro all’altro.
È da anni, undici, che va così. Che va che sia Mathieu van der Poel che Wout van Aert sanno d’esserci l’uno per l’altro, l’uno contro l’altro, che in un modo o nell’altro si ritroveranno davanti, sanno cosa troveranno guardandosi le spalle dopo un’accelerazione. La faccia dell’altro a guardargli il copertoncino tassellato con l’espressione di chi quasi si annoia a ripetere per l’ennesima volta il solito concetto: non è così che mi stacchi, perché non mi stacchi.
E magari tra loro ci sarà qualcuno, un Tom Pidcock a caso. Ma è raro, soprattutto non è lo stesso, e non tanto perché è diverso girare in tre o in due, perché è evidente che tra loro due fa sempre la figura del parvenu, di chi in certe situazioni ancora non ci sa stare, perché mancante di quella naturale propensione all’esserci l’uno per l’altro senza voler esserci l’uno per l’altro. C’è mica nulla da fare: il ciclocross quei due, Mathieu van der Poel e Wout van Aert è da anni, undici, che lo intendono una cosa a due, un tête-à-tête.
Questa stagione non è stata diversa dalle altre. È da inizio dicembre (anche se van der Poel ha iniziato a fine novembre) che i due si inseguono e cercano di staccarsi, che si contendono e dividono le prime due posizioni (solo a Diegem, nella tappa del Superprestige, Pidcock si è inserito, secondo, tra loro due).
A Hoogerheide, casa dei van der Poel, il luogo che il papà di Mathieu, Adrie, ha trasformato da boschetto nemmeno troppo affascinante in epicentro del ciclocross olandese; a Hoogerheide, ai Mondiali, sotto un cielo azzurro e terso che non sembrava nemmeno di stare nei Paesi Bassi, non a febbraio almeno, più che la rincorsa alla maglia di campione del mondo, è andata in scena la dimostrazione ciclocrossistica di cosa vuol dire esserci per qualcuno. Perché Mathieu van der Poel e Wout van Aert volevano entrambi la solitudine, ma sapevano benissimo che non l’avrebbero trovata. E allora hanno pedalato vicini, quasi senza guardarsi, perché sapevano benissimo dove l’altro fosse in ogni momento. E ogni occhiata che si davano era un’occhiata di cortesia, la constatazione di quello che sapevano – e chissà, forse volevano – fosse: che l’altro ci fosse, fosse lì, lui e nessun altro, perché Hoogerheide è questione di famiglia per van der Poel e ormai di questa famiglia, in un modo o nell’altro, c’è entrato pure van Aert. Almeno quando le loro ruote si ritrovano a correre sulla stessa strada o sterrato.
Perché lì a Hoogerheide, non sarebbe stato lo stesso essere soli, perché non sarebbe stato uguale percorrere i gradini della Stairway to Heaven senza l’altro.

Sarebbe stato diverso, probabilmente meno bello, appassionante, esclusivo. Perché in una pista così, con gente così a guardare tifare incitare brindare, non si confà una corsa di solitudine. Serve la compagnia. La compagnia di chi sai benissimo che non ti puoi fidare, perché fatto al tuo stesso modo e della tua stessa sostanza. Un altro come te, la tua copia e la tua nemesi, il tuo più grande nemico, a tal punto da sentirlo, in qualche modo, una parte di te, qualcosa che se non fosse lì, sarebbe diverso, certamente peggiore.
Perché è finita con Mathieu van der Poel campione del mondo e Wout van Aert battuto, ma sarebbe potuta finire, e con la stessa probabilità, all’opposto.
È finita con l’uomo di casa davanti al grande rivale. È finita con una faccia felice e un muso lungo, ma nemmeno troppo e soprattutto non troppo a lungo. Perché ormai, in fondo in fondo, loro due, Mathieu van der Poel e Wout van Aert, vincere o non vincere, quando sono uno accanto all’altro, non è più così importante. Non in corsa ovvio, ma fuori dalla corsa, quando il cuore inizia a pulsare meno e la respirazione è tranquilla, giù dalla bicicletta e lontano dalla corsa, a delusione smaltita. Perché sanno benissimo che è questo esserci l’uno per l’altro, l’uno contro l’altro, a spingerli, a dare loro la forza e la cattiveria per continuare a essere i migliori, a non far abbassare mai loro la guardia, a non farli mai inciampare nel vizio, nella svogliatezza, nella sopravvalutazione di sé.