
Cantami o Giro. Ode a Zandegù, ciclista per scherzo
03/06/2016Diceva un vecchio saggio della bicicletta quale è stato l’Avocat Eberaldo Pavesi che nello sport, soprattutto nel ciclismo, ma anche nella vita tutta, a contare sono essenzialmente tre caratteristiche: stazza, razza e tazza. La stazza è il fisico, quello che uno si ritrova, i propri punti di forza, le capacità innate; la razza è la volontà di tirarle fuori, di andare a tutta, a volte oltre; la tazza è la fortuna, quella di trovare il giusto momento per riempirla. Se la prima ce la devi avere, la seconda sta a te trovarla, la terza invece capita e non puoi farci niente: “Dipende dai momenti, dai cicli dei tempi ed è quella che se ci sono le prime due, ti fa entrare nella storia”, questo per tutti, ad eccezione di chi delle prime due è dotato in maniera troppo superiore agli altri. E quando corri con un tipo come Eddy Merckx, delle prime due, per cavare qualcosa, ne servono a quantità industriali. Perché con te corre il Cannibale e basta il nome per capire tutto.
Gareggiare a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta non è stato facile per nessuno, figurarsi per chi della prima dote ne aveva in quantità, ma della seconda ne godeva a ondate, senza continuità, a seconda dell’umore. Figurarsi per un cavallo di razza che fischiettava e scherzava, che lo sport lo prendeva un po’ così, ridendo. Dino Zandegù è stato questo, ciclista eccezionale, sorriso in bocca, di battute e scherzi, perché, fatica a parte, la bici è meglio che farsi il mazzo da qualsiasi altra parte. Dino è di Rubano, provincia di Padova, fino ai diciassette anni si alza presto per lavorare dal fornaio e poi portare il pane con il biciclettone da consegne; e se capitava un gruppetto di ragazzi che si allenava, non se lo faceva dire due volte, si metteva a ruota e alla prima occasione li staccava. A fare il corridore l’hanno quasi messo a forza, perché quella dell’atleta è vita dura e per farlo salire su una bici da corsa per fare il corridore ci sono volute un po’ di insistenze: veloce com’è ci mette poco a vincere e a farlo regolarmente. Perché Zandegù è veloce davvero, ma se la cava in ogni terreno, in
salita non lo stacchi, in discesa va forte e sul passo non molla un metro. Troppo poco paziente per essere sprinter, troppo poco determinato per lottare per la classifica, rimane un ibrido, capace di ogni cosa, anche di eclissarsi all’improvviso dalla corsa. Un atleta dal talento indiscusso, capace di vincere un Giro delle Fiandre battendo il Merckx più affamato di successi, quello dei primi anni, di conquistare brevi corse a tappe come la prima edizione della Tirreno-Adriatico, di superare tutti su strappi irti, come a Chianciano Terme nel Giro del 1967, di regolare i migliori velocisti del mondo come a Jesolo nel 1970. Capace soprattutto di far dire a Luciano Pezzi, suo direttore sportivo alla Salvarani, “un grande orgoglio per me è aver gioito per le 27 vittorie di Zandegù, il mio rimpianto è quello di non avergliene fatte vincere almeno il triplo”.