Domare la brutta bestia. La redenzione di Jakobsen alla Vuelta

Domare la brutta bestia. La redenzione di Jakobsen alla Vuelta

17/08/2021 0 Di Giovanni Battistuzzi

Quelle braccia al cielo e quel sorriso fiero, leggermente imbarazzato, sicuramente soddisfatto, sono ciò che in fondo in fondo tutti gli amanti del ciclismo volevano vedere. Perché in fondo in fondo le storie di rivalsa sulla sventura sono quelle che avvicinano lo sport, e soprattutto il ciclismo, a tutti coloro che nello sport cercano un segno per sperare in un redenzione, nella possibilità di un nuovo avvio. E sono molte.

Lo sport è molto spesso una vetrina nella quale cerchiamo quelle conferme a quei pensieri che ci gironzolano per la testa, che a volte ci assillano. Osservare ogni tanto che non tutto va male, che è possibile rialzarsi anche dalle situazioni peggiori è qualcosa che ci spinge a insistere. Gli amanti del ciclismo hanno amato alla follia, e continuano ad amare, Fausto Coppi e Marco Pantani anche per questo. Perché sono finiti a terra, a volte malamente, ma non si sono arresi, hanno ripreso la loro vita per mano, hanno saputo scrollarsi di dosso il fatalismo e sono riusciti a tornare a essere i campioni che erano.

Quella di Fabio Jakobsen non è una storia così diversa dalla loro. Anche se non vincerà mai un Giro o un Tour, né tantomeno una Vuelta, questa Vuelta. Anche se il mestiere del velocista è molto più rapido e affascina meno di quello di uno scalatore, di un campione da classifica generale.

Fabio Jakobsen a questa Vuelta poteva non vincere. Nessuno avrebbe avuto qualcosa da rinfacciargli.

Anzi a questa Vuelta poteva pure non esserci.

Il 5 agosto del 2020, poco più di un anno fa, il velocista olandese aveva rischiato di rimanere sull’asfalto di Katowice, di concludere a pochi metri dallo striscione d’arrivo della prima tappa del Giro di Polonia non solo la sua carriera ma pure la sua vita. Una caduta spaventosa generata da una manovra avventata di un collega e resa agghiacciante dalle delittuose misure di sicurezza predisposte dall’organizzazione. Dylan Groenewegen pagò con l’infamia e con nove mesi di squalifica colpe che non erano solo sue. D’altra parte l’Uci non poteva condannare se stessa, se la prese con il più facile dei bersagli.

Si disse che Jakobsen avrebbe potuto non tornare a camminare. Ci tornò. Che avrebbe potuto non tornare a correre. Lo fece. Che avrebbe potuto avere problemi nel tornare competitivo, perché certe cose non si dimenticano e la paura a volte può far toccare i freni.

Brutta bestia il toccare i freni. Brutta bestia la paura per un velocista.

Una brutta bestia che però Fabio Jakobsen ha pian piano domato, che ha messo all’angolo facendosi beffa di lei. Ha iniziato a farlo al Tour de Wallonie, due vittorie. L’ha rifatto al termine della quarta tappa della Vuelta. E l’ha rifatto nel modo più difficile, passando in uno spazietto che si era creato tra Arnaud Démare e Magnus Cort Nielsen.

Fabio Jakobsen ha dato un colpo d’occhio a destra e uno a sinistra. Questione di un attimo, quello giusto per capire di avercela fatta davvero, per non trasformare in farsa tutto quanto. Ha alzato le braccia, si è riappropriato delle sensazione di avere tutti dietro e tutto il mondo davanti, connesso o collegato. Ha sorriso fiero, leggermente imbarazzato, sicuramente soddisfatto.