Erotismo alla Milano-Sanremo

Erotismo alla Milano-Sanremo

18/03/2022 1 Di Giovanni Battistuzzi

Sarà che laggiù in Riviera c’è atmosfera d’estate, c’è lo scintillare dell’acqua, degli alberghi che si affacciano sul Golfo, delle palme che la trasformano quasi in un luogo esotico; sarà che laggiù in Riviera si percepisce l’aria di festa, dell’evento che da sportivo si trasforma in mondano, perché ci sono i corridori che arrivano veloci e tutti i paesi si sono addobbati per l’occasione; sarà che soprattutto laggiù in Riviera c’è il mare, ci sono fiori ovunque, è già primavera.

Da sempre la Milano-Sanremo segna la fine dell’inverno e l’inizio della bella stagione, è lo spartiacque tra un prima e un dopo: prima grande corsa, prima occasione per sistemare già a marzo una stagione, primo evento imperdibile del calendario internazionale.

Uno spartiacque che non è solo sportivo, anche di vita, perché almeno sino agli anni Sessanta, la Sanremo voleva dire anche un’altra cosa, staccare un attimo dalla quotidianità di allenamenti e faticate e riaffacciarsi alla vita, abbandonare la bicicletta per qualche giorno e trasgredire a quella regola ferrea, anche se non scritta, che Eberardo Pavesi, l’Avocatt, ripeteva a tutti i suoi atleti: “Ricurdeve che se vurì andà fort bisogna ciulà no”.

Ciulà no” è stato l’imperativo categorico assoluto del ciclismo per decenni e decenni. “La bici è donna e di donne ne basta una”, aveva detto l’inventore del Tour de France, Henri Desgrange, a Fernand Augereau, pioniere delle due ruote, terzo alla prima edizione della Grand Boucle, uno che in bicicletta andava forte, ma che alla compagnia di manubrio e sellino preferiva quella delle signore. Precursore inconsapevole di quel Renzo Zanazzi che dopo aver firmato con la Legnano nel 1946 e aver sentito la versione di Pavesi si era rivolto al fratello Valeriano: “Ma quel lì l’è matt! Se ciùlum no a vint’ann quand l’è che ciùlum? A vutanta?”.  

Perché il ciclismo è sì sport di fatica e resistenza, ma soprattutto di privazioni. È nato così, è stato così per quasi un secolo, lo è ancora oggi, anche se in maniera diversa, meno stringente.

Ore e ore in bicicletta, su colli e pianure, sotto il sole che cuoce o la pioggia che fradicia. Poi a tavola a bilanciare grassi con carboidrati, proteine con vitamine, e tanti no a tutto quello che di buono c’è nella vita. No vino, no birra, no dolci, no salumi, no donne. Neppure loro.

Lo racconta Walter Bernardi nel suo libro “Sex and the bici“. Lo dicevano i medici: “Completa castità per non spossare il fisico di più di quanto già lo faccia il velocipede”, 1899; “astinenza assoluta e se non è possibile, grande moderazione, ma mai nelle settimane che precedono le corse”, 1906. Lo dicevano gli allenatori: “La donna per un velocipedista è Eva. E per andare forte e a lungo bisogna rifuggere dalle tentazioni: sempre quando si corre, sempre quando ci si allena. E’ solo d’inverno che la bici riposa”, disse Gian Ferdinando Tommaselli a Carlo Galetti nel 1911; “dimenticatevi delle donne, perché se state appresso a loro inizierete a dimenticarvi di vincere e quando ciò succederà, perché succederà, loro si dimenticheranno di voi”, ripeteva ai suoi Biagio Cavanna, che prima di scoprire Fausto Coppi, fece diventare campione, anzi Campionissimo, Costante Girardengo.

La regola era quella del “ricurdeve che se vurì andà fort bisogna ciulà no”. Eberardo Pavesi lo ricordava a tutti. E a Eberardo Pavesi difficilmente si poteva dire di no, certamente non lo si poteva prendere in giro: perché Avocatt, nella Milano di fine Ottocento, venivano chiamati solo quelli scaltri, quelli che sapevano destreggiarsi nelle avversità; perché era la storia del ciclismo, uno dei tre moschettieri dell’epoca dei pionieri (gli altri erano Luigi Ganna e Carlo Galetti); perché soprattutto, una volta terminata la carriera agonista, era salito in ammiraglia, quella della Legnano, e aveva vinto più di tutti: con lui alla guida i suoi uomini avevano conquistato di 15 Giri d’Italia, 2 Tour de France, 7 Mondiali, 8 Milano-Sanremo, 11 Giri di Lombardia e centinaia e centinaia di altre corse.

Una regola che veniva imposta da giovanissimi, seguita (quasi) alla lettera da moltissimi, elusa da molti, ma solo quando le circostanze lo permettevano. E le circostanze lo permettevano sempre al termine di una grande corsa, una di quelle che segnano da sole un capitolo della stagione ciclistica. Una come la Milano-Sanremo.

A Sanremo infatti non si concludeva solo la Classicissima, per decenni si archiviava la prima parte delle competizioni: in Riviera si correva un Mondiale anticipato, c’erano tutti i corridori più forti, a raccolta prima di dividersi.

Dal Mar Tirreno c’era chi seguiva la via del nord, verso Fiandre e Vallonia, chi invece quella del sud, verso il caldo e le piccole gare che facevano da antipasto al Giro d’Italia. Almeno sino alla fine degli anni Cinquanta infatti le incursioni all’estero dei nostri corridori erano privilegio per pochi. Andare in Belgio costava caro e non tutte le squadre se lo potevano permettere. Così da fine marzo si iniziava a preparare la corsa rosa: c’era tempo un mese e mezzo, c’era il tempo di qualche svago, di ritornare dalla moglie, chi ce l’aveva, di concedersi a qualche piacere della carne, per tutti gli altri. Pochi, certo, ma abbastanza per ricaricare le batterie in vista degli impegni futuri.

Lo sapevano tutti, lo sapeva anche Eberardo Pavesi. Lui la Sanremo l’ha corsa e vissuta. Ha visto le fughe verso il lungomare, gli sprint sul lungomare e gli uomini a pedale che dal lungomare si dirigevano verso il borgo antico.

Erotismo alla Milano-Sanremo

È l’altra corsa, quella silenziosa e segreta, quella che dalle strade si spostava nelle stanze private, quella che trasformava gli applausi ai professionisti in carezze di professioniste. L’altra Sanremo è quella che non fa cronaca, che non si legge sui giornali, ma che si scorge nelle occhiate cameratesche tra i forzati della strada. Quella nella quale l’ordine d’arrivo diventa ordine di prenotazione, dove non esiste più differenza tra campioni e gregari, i protagonisti cambiano aspetto e costumi e le biciclette sono solo un ricordo, come le maglie e i successi. Si entra in un’altra dimensione dove le biciclette non entrano, una planata morbida in territori non comuni, molte volte inesplorati.

La Sanremo del resto è essa stessa una lunga esplorazione.

A vederne il profilo sembra banale. È una lunga striscia orizzontale dove spuntano quasi per caso dei piccoli denti. Non c’è ascensione, non verticalità. È morbidezza e dolcezza. C’è il mare, ci sono i colori accesi del verde dei boschi a picco sul blu dell’acqua, i fiori che accompagnano le ruote dei corridori. Il disegno di curve della litoranea è un serpentone di larghe anse, addormentato, l’asprezza dei monti che salgono a picco tra rocce, faggi e abeti è solo contorno ininfluente. Non ci sono i muri del Fiandre o le côtes della Liegi a segnare il cammino, a sgretolare il gruppo. È la fantasia, l’azzardo a decidere la corsa. Il resto è un planare verso Sanremo, un tempo dal Turchino, la vetta più alta della corsa, poi dai tre capi, Mele-Cervo-Berta, infine Cipressa e Poggio.

Il lungomare segna la fine della corsa. Da lì è un planare in letti nuovi.

È il 1910, il 3 aprile. A Milano il cielo è una lastra di toni di nero, a Pavia inizia a piovere, a Tortona a grandinare. Sono partiti in 63 alla partenza, all’inizio del Turchino un quarto dei partecipante se ne era già tornato a casa. Durante la salita inizia a nevicare, in discesa ci sono oltre 20 centimetri sulla carreggiata. In molti trovano rifugio in casolari e fattorie per evitare il congelamento, ripartono in una decina. Lungo la litoranea c’è vento gelido e nevischio, Eugène Christophe, che aveva scollinato per secondo ma che si era fermato per oltre mezz’ora in un casolare per mangiare qualcosa, recupera Luigi Ganna e Pierino Albini, che guidavano la corsa, ad Arenzano. A Varazze non ha nessuno attorno. A Sanremo arriva solo, con il cielo che si stava aprendo e con i baffi completamente congelati. Viene portato a scaldarsi, a bere un tè caldo. Intanto giungono voci che gli inseguitori siano ancora ad Alassio.

La Milano-Sanremo era il primo spartiacque della stagione del ciclismo. Sul lungomare le imprese sportive, nei vicoli quelle a luci rosse

Christophe si riprende, beve un paio di caffè, mangia un po’ di mascarpone. Poi vede una donna, “era mora, bellissima. Anche lei mi guarda, mi fa cenno di seguirla. Sfrutto il fatto che il mio allenatore è andato al gabinetto – racconta negli anni Cinquanta a L’Equipe – e faccio due passi. Mi ritrovo nella sua stanza, facciamo l’amore. Me ne innamoro. L’avrei portata con me e sposata talmente era bella. Poi mi fa capire che quello che avevamo fatto aveva un costo ma che mi avrebbe fatto pagare di meno perché ero il vincitore. Capì che non ero il primo corridore e neppure il primo uomo. Pagai con quello che avevo, ossia un palmer e la maglia della squadra. Quando uscii da lì dentro ero spossato e presi freddo”.

Christophe uscì da lì dentro si trascinò al bar vicino all’arrivo, aspettò ancora diverse decine di minuti l’arrivo dei suoi rivali: un’ora e un minuto, il distacco più ampio in una Sanremo. Venne premiato sul podio assieme a Giovanni Cocchi e Giovanni Marchese.

Poi venne ricoverato per una polmonite.

Ventidue anni dopo a Sanremo piombò Charles Pélissier. Era il più piccolo dei fratelli Pélissier: Henri, il più forte, arrivò secondo nel 1914, la vinse nel 1923; Francis fu terzo nel 1920. Charles era il meno dotato in bicicletta: non aveva le doti di resistenza dei due, non la classe di Henri, nemmeno la tenacia di Francis. Ma era bello, con gli occhi grandi e azzurri, e i capelli biondi tirati all’indietro, “sembrava un attore, era affascinante come un dio”, raccontò la grande attrice francese degli anni Trenta Annabella, che del corridore si innamorò non ricambiata.

Charles era un dandy, vestiva bene e si concedeva con piacere alla bella vita. Alla Sanremo c’era arrivato richiamato dai racconti dei fratelli e dei compagni. Quella corsa non era fatta per lui, troppe salite, troppo difficile da controllare per uno che il meglio di se lo dava allo sprint. Arrivò settimo.

Il meglio comunque lo riservò nel dopo corsa. A Sanremo rimase una settimana tra feste, ristoranti di pesce e dolci compagnie.

Dieci anni fa da un cassone in legno di una soffitta della città vecchia saltarono fuori alcune foto che lo ritraevano con la proprietaria di un bordello del centro. Dietro una di queste c’era scritto in francese: “A Clara, conturbante bellezza, grazie per i giorni più belli della mia vita”. Firmato Charles Pélissier.  

Il dopocorsa non era solo affare francese però. Non riguardava solo vincitori e rampolli di grandi famiglie del pedale. Era costume diffuso.

Giovanni Poloni, era savonese, a Sanremo ci andava spesso per allenarsi, il paese lo conosceva bene. Conosceva anche i vicoli, i discorsi che facevano i sanremesi, e sapeva consigliare. Fu lui a raccontare a Raffaele Di Paco come funzionava il dopo corsa, a indirizzarlo. Di Paco, era toscano, era sprinter di razza, vinse 16 tappe al Giro, 11 al Tour, “era irresistibile non solo con la bici, anche con le donne”, fece sapere Quirico Bernacchi a un giornalista della Gazzetta. E lì in Riviera di donne ne conobbe molte.

Iris Debotte, era francese, di Nizza, scappò di casa a sedici anni, si ritrovò a Sanremo, per anni prestò servizio in una casa di appuntamenti, prima di sposarsi con un ricco rampollo di una famiglia dell’alta borghesia di Cannes, innamoratosi dei suoi “lunghi capelli color del sole e dei suoi grandi occhi color del bosco”. È lei a raccontare dell’incontro con Di Paco nelle sue memorie, “un uomo affascinante e gentile, bello come una statua. Mi innamorai di lui e lui di me. Ogni anno aspettavo l’arrivo dei corridori, pregando che lui ci fosse, che vincesse per me. Lui arrivava sempre con un mazzo di fiori, ci intrattenevamo tra chiacchiere, baci e carezze. Poi lui scompariva e ritornava un anno dopo. È stato l’unico corridore per cui abbia mai fatto il tifo, fu l’unico avventore che abbia desiderato. Almeno sino a quando conobbi mio marito”.

Amori che nascono, desideri che fuggono.

Era il 1949, era il 19 marzo, il giorno dell’ultima Classicissima vinta da Fausto Coppi, la penultima edizione della corsa in una città consacrata solo al ciclismo.

C’è un bel sole sui corridori quel giorno, l’aria è tersa, il vento è freddo, ma batte sulla schiena, sospinge. Lancia i fuggitivi sulla litoranea, fa volare l’Airone sul Capo Berta. Coppi divora gli ultimi trenta chilometri, scompare dalla vista dei primi, raggiunge il nuovo traguardo di via Roma in solitaria, coglie il terzo successo in Riviera della sua carriera. Media record: 39,4 km/h. Fausto è sul podio con Vito Ortelli e Fiorenzo Magni. Feste, applausi, fiori, sul traguardo della corsa. Musi lunghi, proteste, agitazione a nemmeno un chilometro da lì. “La casa di Irma era stata chiusa. Non sai che arrabbiatura da parte di tutti. Hanno detto che è stato per una cosa con una ragazza, una nuova che era molto giovane e molto bellina, che era scappata di casa e aveva iniziato a fare. I genitori hanno denunciato e ora Irma è guai”, racconta Enzo Nannini, sessantesimo al traguardo a oltre un quarto d’ora da Coppi, in una lettera all’amico e compagno di squadra Livio Isotti, che si stava riprendendo dalla rottura della clavicola. Da Irma si ritrovavano i corridori all’arrivo, perché da Irma “c’erano sempre state le ragazze più belle, veri quadri viventi”.

Irma riaprì mesi dopo, i genitori ritirarono la denuncia venuti a sapere che la ragazza aveva di sua spontanea volontà, e falsificando un documento, di intraprendere la professione. Quel giorno molti corridori andarono via delusi, Irma tornò a fare parlare di se nel 1958 quando schiaffeggiò un parlamentare della Dc di Genova che difendeva in pubblico la legge Merlin. La legge passò, la donna venne condannata a scontare sei mesi in una cella.

L’avventura di Irma si concluse il 20 febbraio del 1958, la Milano-Sanremo invece continua. La storia dell’erotismo alla Milano-Sanremo si è chiusa quel giorno.