Fabio Casartelli e la perdita dell’innocenza

Fabio Casartelli e la perdita dell’innocenza

18/07/2023 0 Di Giovanni Battistuzzi

Era il 18 luglio del 1995 quando sulla discesa del Portet-d’Aspet moriva Fabio Casartelli al Tour de France. La fine di un mondo perfetto di ciclisti supereroi


Per un ragazzino i corridori sono una specie strana di esseri umani, più vicina ai supereroi che a tutti gli altri che ci stanno attorno, difficilmente sono solo e soltanto uomini. Fanno cose troppo incredibili per essere solo e soltanto uomini. Pedalano per centinaia di chilometri, scalano le montagne a velocità che noi nemmeno in pianura, scendono dai monti come l’Uomo ragno giù dai grattacieli, cadono e si rialzano come fossero Batman, in piano pedalano alla velocità di Flash. L’evidenza che non tutto è impossibile e che con una bici si può fare qualsiasi cosa. Poi arriva il giorno che ci si accorge che sono solo e soltanto uomini. Non è un male, anzi. Quando succede però è sempre un piccolo choc, la fine di un mondo perfetto. Per me, per molti, quel giorno arrivò il 18 luglio del 1995. Il giorno nel quale morì Fabio Casartelli.

Fu quel giorno, sulla discesa del Portet-d’Aspet, che il mio mondo perfetto finì definitivamente. Non era la prima volta che mi rapportavo con la morte, eppure era la prima volta che la vedevo. Mi avevano sempre protetto lo sguardo fino ad allora. Quel giorno entrò nei miei occhi. Un corpo a terra immobile, una striscia di sangue che scendeva a valle. Vedendo tutto questo non avevo ancora collegato tutto. Mi fu chiaro ore dopo quando non mi ricordo chi e non mi ricordo dove disse “è morto Fabio Casartelli”.

Fu in quel momento che i ciclisti sono diventati davvero esseri umani, non più supereroi. Sono rimasti i miei preferiti, quelli da tifare e voler bene, ma simili a me, fatti della stessa sostanza, non più eroi con dei poteri speciali.

Fu quel giorno tra i Pirenei, già allora i miei amatissimi Pirenei, che l’innocenza svanì, andò lontano, in fuga, irraggiungibile. Come quel volto da bravo ragazzo, che faticava in salita, ma che era potente ed elegante altrove.

Ricordo anni dopo, sempre al Tour de France, sempre sul Portet-d’Aspet, ma in salita questa volta, in tanti allungarono la mano, inviarono qualche bacio. Qualcuno pianse. Ricordo i volti che si abbassavano al suolo, le lacrime che rigavano il viso di qualche corridore.

Allora tutto questo mi sembrò qualcosa di enorme, qualcosa che difficilmente poteva essere superata. Sono passati ventotto anni da allora, altri ricordi non sono più presente. Eppure ci sono ancora. Perché il gruppo è cambiato un sacco di volte, ma stranamente ha mantenuto al suo interno qualcosa di chiunque non c’è più, quantomeno il nome, il volto, una mappa di saluti. Ancora un corpo unico, che si rigenera ogni volta senza perdere ciò che è stato.