
Franco Ballerini era nato sulle pietre
07/02/2021Sul pavé il pedalare diventa un atto di dolcezza. O almeno così sembrava a vederlo in bicicletta. Il sette febbraio del 2010 l’addio al Ballero
Le pietre sono una scelta. Non ci si ritrova per caso a pedalare lassù, in quel pezzo di Francia che in Francia c’è finita per errore perché tutto sa di Fiandra. Uno per prima cosa si deve sentire dentro una buona dose di curiosità per decidere di lasciare ogni comodità ed entrare in un mondo che vive fuori dal tempo e da ogni logica. Ma la curiosità non basta, serve qualcos’altro. Una scintilla. Quella che fa comprendere che non c’è niente di meglio di pedalare in mezzo a campagne di polvere e fango. Che non c’è niente di meglio della Parigi-Roubaix.
A volte sin lassù si va solo per il gusto di andare, perché se ne è sentito parlare, perché si ha un ricordo lontano gonfiato di meraviglia dalle parole dei vecchi che ancora ricordano Coppi, Bevilacqua e Gimondi e che Moser è come fosse stato ieri. O perché è distante, remoto, la solita affascinazione per esotico, anche se in questo caso a tratti spettrale. A volte si va lassù perché ce lo si sente dentro. Perché non se ne può fare a meno. Un richiamo, un sussurro, l’idea di avere un posto nel mondo e che in quel posto nel mondo per arrivarci ci sia bisogno di attraversare quella nube minerale dentro la quale le biciclette dominano il corridore.
La Parigi-Roubaix è un paradosso. In quelle pianure dure e crude come la miseria, il pedalare diventa un atto di dolcezza. Il corridore non dirige il manubrio, l’asseconda, si lascia cullare da una centrifuga di sobbalzi e scosse, mentre le gambe cercano di trovare la pedalata giusta, quella né troppo violenta né troppo gentile, il ritmo giusto di rimbalzo per galleggiare lì dove in molti affondano.
Il 9 aprile del 1995 in molti si resero conto di tutto questo nel vedere un ragazzone con la maglia a cubetti apparire tra la polvere che offuscava quelle poche centinaia di metri che separavano Pont-Thibaut e Ennevelin, settore numero sei della Parigi-Roubaix, duecentoventinove chilometri percorsi, trentanove chilometri all’arrivo. Franco Ballerini quel giorno forzò senza forzare, accelerò la dolcezza del galleggiare, ondeggiò sulle pietre e sparì via dagli occhi di tutti. Piegò le resistenze altrui di grazia, accarezzando quei blocchi d’inferno con la gentilezza con la quale ci si rivolge a una persona cara. “È come se fosse nato sulle pietre”, commentò Roger De Vlaeminck, con Tom Boonen il più vincente a Roubaix, quattro successi.
In quel giorno Ballerini si riprese quello che solo l’inesperienza gli aveva fatto perdere due anni prima, quando Gilbert Duclos-Lassalle lo beffò allo sprint dopo essergli stato a ruota apparentemente sfinito per decine di chilometri.
La grazia e la delicatezza con la quale Franco Ballerini affrontava il pavé se lo portò con sé in tutto il mondo in sella a una bici e poi, una volta sceso, sui sedili di un’ammiraglia. È da lì che diresse l’ultimo risorgimento azzurro: nove medaglie tra Mondiali e Olimpiadi, quattro maglie iridate e un alloro olimpico.
La grazie e la delicatezza con la quale Franco Ballerini affrontava il pavé ce la ritrovammo spiattellata in faccia come uno schiaffo, come un pugno, come uno sputo. Non suo ovviamente, non era il tipo. Fu insulto quella voce che suonava torva, che suonava male, che faceva male: “Un incidente. È morto Franco Ballerini”. Il 7 febbraio del 2010.