
Franco Battiato e il suono della bicicletta
18/05/2021Era di maggio, una notte calda di quelle che sembrano essere già estate. Fine anni Settanta o giù di lì. Tempo di Giro d’Italia e dei primi concerti all’aperto. Un uomo se ne vagava per la città solo. Aveva un cappello a tesa larga e un cardigan sformato di qualche taglia più grande. Camminava guardando in alto, con lo sguardo rivolto a chissà cosa, dentro chissà quali pensieri.
La sua attenzione venne d’un tratto rapita da un uomo e una donna che chiacchieravano pedalando su due vecchie bici da donna. Erano tempi quelli nei quali le biciclette stavano sparendo dalle città, se ne vedevano sempre meno, come fossero ricordi antichi di un’epoca che si stava inesorabilmente dissolvendo.
Si fermò qualche istante a osservare il loro incedere lento per le strade deserte. Un’immagine come tante, di quelle a cui nessuno dà importanza. Di quelle che però ogni tanto, come un flash estemporaneo, ritornano a illuminare per un attimo le ombre che lasciano le questioni importanti. C’è nulla in fondo di più importante del superfluo.
Un’immagine che riapparve anni dopo e trovò spazio in un verso, messa lì come diapositiva fuori fuoco tra un pensiero e l’altro.
“Nei vestiti bianchi a ruota echi delle danze sufi / nelle metro giapponesi oggi macchine di ossigeno / Più diventa tutto inutile e più credi che sia vero / e nel giorno della Fine non ti servirà l’Inglese / E sulle biciclette verso casa la vita ci sfiorò / ma il re del mondo ci tiene prigioniero il cuore”.
Franco Battiato la inserì in “Il Re del mondo”, prima traccia del lato B di L’era del cinghiale bianco.
Un viaggio di parole e musica ispirato dallo scrittore francese René Guénon. Un’immagine che appare nel mistico, come quei ciclisti che apparvero a Guédon a fine dell’Ottocento, “da una nuvola di polvere e stanchezza al colmo di una salita. E mentre spingevano i loro velocipedi dannati, mentre i loro volti venivano deformati dalla spossatezza, il loro sorriso soave strideva con tutto ciò, come fosse quel muovere i pedali una forma di liberazione dal giogo della mortalità”.
Nel 1990 Giorgio Gaber ricordò di quando Battiato lo andò a trovare in teatro in sella a una bicicletta. Era l’inizio degli anni Ottanta e “se ne stava andando verso la campagna per schiarirsi le idee. Mi raccontò di essere stato superato da due uomini vestiti con maglie e pantaloncini di lanetta e che non capiva perché si impegnassero ad andare così forte. Si prendano una macchina se vogliono correre! Mi disse. Poi divagò sul piacere di andare piano, della sensazione di calma e pace che gli donava la lentezza e di come gli fosse difficile trovare le parole per descrivere tutto ciò”.
Non c’era riuscito a trovare le parole nemmeno per Le biciclette di Forlì. Alice aveva scritto la musica, lui ci provò per giorni a scriverci il testo. Poi decise che andava bene così, che così bastava. Al Giorno, qualche settimana dopo l’uscita del singolo che nel lato A presentava I treni di Tozeur, disse che “non servono parole per parlare di bicicletta. Chi ha pedalata lo capisce. È un parlare muto la bicicletta, un amalgama di suoni e ticchettii”.
Antoine Blondin sull’Equipe scrisse di quel brano, sottolineando come “nulla fosse in più e nulla in meno del pedalare. Una parola sola sarebbe stata di troppo”.