Frank Vandenbroucke e la porta del passato

Frank Vandenbroucke e la porta del passato

19/06/2023 0 Di Giovanni Battistuzzi

Non si è mai pronti a essere ributtati a forza di schiaffi in un passato che si pensava terminato, lontano, diverso anzi diversissimo dal presente. Si finisce sempre a tirare il fiato quando quel tipo di passato ritorna presente, a scorgere inquietudini andate, ricordi diventati in qualche modo rimpianti se non rimorsi. Questo accade anche quando si è preparati a questo. Bastava vedere la copertina per capirlo. C’era già tutto. Quel volto che avevo visto vincente e poi dannato. Quel nome che mi, ci, aveva dato gioie, attese, illusioni, soddisfazioni, prima; una sensazione di occasione mancata, poi; la certezza che poteva andare diversamente, infine. Dovevo sapere che sarei stato condotto dentro quel passato che non volevo tornasse presente. Suvvia che cosa potrà mai succedere, mi chiedevo prendendo in mano “Dio è morto. Ascesa e cadute di Frank Vandenbroucke” di Andy McGrath (Mulatero editore, collana Pagine Alvento, 352 pagine, 21 euro).

Cosa poteva andare storto? Nulla.

L’avevo visto correre Frank Vandenbroucke. Almeno in tv, dal vivo mai. Ricordavo il Trofeo Matteotti del 1997 che davano in differita: sprint a due con Daniele Nardello, bella vittoria dopo una grande corsa, appassionante. Non è la sua prima vittoria, era forse il suo primo nitido ricordo che avevo. Non è stato l’ultimo. Frank Vandenbroucke sarebbe entrato ancora nella mia vita di appassionato di ciclismo, in tutte le nostre vite di appassionati di ciclismo.

Avremmo voluto che potesse entrare in più storie, in più ricordi. Le premesse d’altra parte c’erano tutte. Non poteva non andare così, non poteva non diventare una presenza fissa degli ordini d’arrivo, dei podi, delle grandi corse del ciclismo.

Bastava vederlo pedalare Frank Vandenbroucke per capirlo. Bastava vederlo come correva, con che facilità si muoveva in gruppo, in testa al gruppo e poi con uno scatto pure avanti al gruppo. I termini fenomeno e campione sono spesso abusati nello sport, il ciclismo non fa eccezione, però il belga poteva rientrarci. Ne aveva tutte le possibilità, i crismi, le apparenze.

Divenne evidente un giorno di aprile del 1999.

La bella primavera del 1999

Era una bella primavera quella del 1999. Sono sempre belle le primavere quando si va a scuola, perché si sa che alla fine della scuola non manca molto, perché l’estate è ancora lunga che sembra infinita.

Quella del 1999 era però ancora meglio delle altre. Perché il Giro d’Italia si avvicinava e avevano detto che era duro, con tanta montagna. E c’era Marco Pantani, e all’epoca Marco Pantani era il ciclismo, che l’avrebbe corso e chissà che non gli fosse ancora saltata in testa, noi allora umili pionieri della passione ciclistica, la stramba idea di riprovare ancora a fare quello che gli era riuscito un anno prima: Giro d’Italia e Tour de France vinti in uno stesso anno. Sembrava impossibile, era accaduto.

Era una bella primavera perché era iniziata bene. Ed era iniziata bene perché Andrei Tchmil aveva fregato tutti i velocisti alla Milano-Sanremo e allora tutte le Sanremo le vincevano i velocisti. Poi era proseguita al nord con belle corse, vabbé che non ce ne sono di corse brutte al nord, e Andrea Tafi aveva pure vinto la Parigi-Roubaix e poco importava se il mio amatissimo Franco Ballerini fosse arrivato solo undicesimo, aveva pur sempre vinto un’italiano. Era quelli anni nei quali ancora davo un senso alle bandierine accanto ai nomiecognomi dei corridori, fortuna che ora ho smesso.

Fu proprio in quella primavera del 1999 che a guardare le bandierine vicino ai nomiecognomi dei corridori stavo rischiando di non apprezzare in pieno ciò che di bello il ciclismo stava mandando in onda.

L’antipasto si materializzò al Giro delle Fiandre. Ero lì a sperare che Michele Bartoli potesse lasciare tutti, che non mi godetti appieno la matta idea di Frank Vandenbroucke di rincorrere da solo due corridori che all’epoca erano il meglio che si poteva trovare sui muri del Fiandre: Peter van Petegem e Johan Museeuw.

La Liegi-Bastogne-Liegi di Frank Vandenbroucke del 1999

Il primo, il secondo e il dessert arrivarono poche settimane dopo. Era il 18 aprile, si correva la Liegi-Bastogne-Liegi. Sulla côte de Saint-Nicolas c’era una decina di corridori a contendersi la Doyenne, c’era Michele Bartoli e Paolo Bettini soprattutto, almeno soprattutto per me. Poi scattò Michael Boogerd e Bartoli e Bettini non c’erano più. Ma era rimasto Frank Vandenbroucke alla ruota dell’olandese. E c’era rimasto con una semplicità che aveva del sorprendente.

Ben più sorprendente fu la semplicità con la quale si liberò di Michael Boogerd. Rimase solo. Arrivò solo sotto lo striscione d’arrivo e mezzo minuto prima di tutti gli altri. Su quella côte aveva fatto una cosa tipo quella che Marco Pantani faceva nelle lunghe salite, qualcosa che sembrava facile per quanto era naturale.

Già allora capivo che così non era. Che non era facile per niente. Che io in bici ci andavo, ma mica a fare il corridore, a farmi i fatti miei, correre per correre, non per competere. Mi è mai piaciuto competere, mi piaceva vedere competere, ma farlo io no, non faceva per me. Capii questo ben prima di accorgermi che era una cavolata guardare le bandierine vicino ai nomiecognomi dei corridori.

Capii anche che Frank Vandenbroucke era una gran bel vedere. Capii soprattutto che lui e Marco Pantani erano quelli che preferivo e di gran lunga davanti a tutti. A eccezione di Franco Ballerini, perché ben prima avevo capito la cosa più importante, almeno per me, che prima di tutto veniva la Parigi-Roubaix e prima di tanto veniva vedere pedalare Franco Ballerini sul pavé della Parigi-Roubaix e fortunato chi è stato chi ha visto pedalare Franco Ballerini sul pavé della Parigi-Roubaix.

Frank Vandenbroucke mi piaceva perché era forte in salita ed era forte sulle pietre. Era forte ovunque certo, ma soprattutto sulle pietre e sulle salite. Ed era mica male per me pioniere della passione del ciclismo vedere uno che unisce le cose che mi piacevano, piacciono, di più.

Gli anni sbagliati

Allora pensavo di essermi garantito un bel po’ di anni meravigliosi.

Non fu così.

Arrivò Madonna di Campiglio, poi Frank Vandenbroucke sparì. Non capivo perché fosse sparito. Come fa uno così forte a non correre?, mi chiedevo. E poi: come fa uno così forte a non finire le corse?, continuai a chiedermi.

La primavera del 1999 doveva essere l’inizio di una doppia storia magnifica. E sarebbe stata pure tripla, perché io dovevo beneficiarne in quanto amante della bicicletta e del ciclismo. La maglietta della Mercatone Uno ce l’avevo già, avrei rotto le balle a qualcuno per avere pure quella della Cofidis, che era bella con un sole stilizzato sul petto.

Non me la regalò mai nessuno e io non c’avevo lire per prendermela.

Poi nemmeno Vandenbroucke mi regalò mai più una soddisfazione.

Io però sono sempre stato per Vandenbroucke. Lo so ancora. Lo sarò sempre.

Ora so per bene anche perché continuerò a esserlo, perché certe vite non sono facili, sono un tale casino che non possono sommare pure un tradimento tardivo, anche se post mortem. Frank Vandenbroucke è morto il 12 ottobre 2009. La mia adolescenza ciclistica finì allora. La mia infanzia ciclistica era già finita la sera di San Valentino del 2004, quando una mia amica mi informò al telefono della morte di MarcoPantani.

Dovetti salutare anche Franco Ballerini. Non è più rimasto nulla dei miei amori di un tempo.

Mi sono sempre detto che non mi sarei più innamorato di un ciclista. Non sempre ce l’ho fatta.