
Freccia vallone. Pogacar e l’abbandono alla scientificità
19/04/2023Questa volta a Tadej Pogacar sono bastati duecento metri. Gli ultimi del Muro di Huy e della Freccia Vallone. Lo sloveno ha aspettato il momento giusto, con la consapevolezza che la Freccia vallone è soprattutto questo: attesa del momento giusto, quello per accelerare in quel ventaglio di cento-centocinquanta metri buoni per mettere sull’asfalto verticale del Muro di Huy la potenza necessaria per tentare di mettersi alle spalle tutti. L’ultima volta che non è andata così fu vent’anni fa, ci pensò Igor Astarloa.
Il copione non è cambiato nemmeno quest’anno, nonostante il ciclismo abbia dimostrato la capacità di fare a pezzi anche i canovacci più consolidati, pure quello della Parigi-Roubaix, che ha (avuto?) le porte dell’Inferno poste ben saldamente all’ingresso della Foresta di Arenberg.
E sì che qualcuno c’ha provato. Samuele Battistella con Louis Vervaeke, tentando il colpo gobbo sul penultimo passaggio sul Muro di Huy a trentasei chilometri dal traguardo. Il belga della Soudal-Quick Step dopo aver staccato l’italiano dell’Astana Qazaqstan Team e il danese della Alpecin-Deceuninck, Søren Kragh Andersen (l’ultimo dei superstiti dei fuggitivi della prima ora) sulla Côte de Cherave a sette chilometri dall’arrivo. Non è andata loro bene.
Tadej Pogacar ha lasciato da parte il sentimento, la volontà guerrigliera di dilatare le azioni, tentare di trasformarle in una lunga, la più lunga possibile, solitudine. Si è affidato alla scientificità, all’analisi costi benefici. Un po’ perché alla Freccia vallone va così ed è difficile solo immaginare un finale alternativo; un po’ perché il Muro di Huy è una lama affilatissima e basta un piccolo errore per finire coi muscoli sfregiati; un po’ perché c’è all’orizzonte, e nemmeno troppo lontano, l’incontro-scontro con l’altro grande incendiario del pedale, Remco Evenepoel, alla Liegi-Bastogne-Liegi (una Doyenne tra le altre cose leggermente più dura rispetto agli anni precedenti).
E così Tadej Pogacar ha cercato di evitare le insidie di côtes, curve, nervosismo di gruppo e cadute, ha fatto corsa di posizione, ha atteso il momento giusto e nel luogo più idoneo per trovare l’agognata solitudine è scattato. Mancavano duecento metri allo striscione d’arrivo. Si è alzato sui pedali proprio nell’esatto momento nel quale pure Michael Woods stata provando l’accelerazione. Dispiace per il canadese (quarto al traguardo) ma la differenza è stata abissale.
Mattias Skjelmose ha aspettato qualche decina di metri in più, ha fatto qualcosa di molto simile a ciò che era riuscito allo sloveno, ma non è bastato. Basta mai niente quando c’è di mezzo Pogacar. Lo ha riconosciuto il danese: “Ha fatto qualcosa di fottutamente incredibile”, ha detto sorridendo, un po’ per giustificarsi, ma non c’era bisogno, soprattutto per sincero apprezzamento. “Arrivare secondo vuol dire arrivare primo tra i mortali”, gli ha fatto eco Mikel Landa, terzo al traguardo.
A Tadej Pogacar manca ora la Liegi-Bastogne-Liegi per farsi timbrare il tesserino dell’immortalità ciclistica e raggiungere i filottisti delle Ardenne Davide Rebellin e Philippe Gilbert, coloro che hanno trasformato la settimana delle côtes, quella che parte dall’Olanda, dalla Amstel Gold Race, e si conclude a Liegi passando per il Muro di Huy, in una questione personale. C’ha messo anche il Giro delle Fiandre a correlato di tutto questo, perché in fin dei conti Tadej Pogacar è pur sempre uno che in bicicletta va a sentimento e l’amore, si sa, è difficile condensarlo in un unico luogo o in un unico momento, quando c’è di solito di espande, prende tutto, invade ogni cosa. In questo caso ogni corsa.
L’ordine d’arrivo della Freccia vallone vinta da Pogacar
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