Freccia d’Italia. L’arrampicata al Muro di Huy, terra d’assalto azzurra
22/04/2015
Più che una strada, un calvario, più che una salita, un martirio. Verticalità, amore di appassionati, esaltazione dei coraggiosi, degli animali da strappi, degli specialisti delle côtes. E’ il Muro di Huy, finale per eccellenza della Freccia Vallone che si correrà quest’oggi, la classica delle Ardenne, antipasto e anticipazione dell’ultima classica monumento della campagna del nord, la Liegi-Bastogne-Liegi. Un chilometro e trecento metri di passione: non solo sportiva, quasi fideistica. Chemin des Chapelles per gli abitanti della cittadina vallone, toponimo, luogo religioso, una via Crucis a pedali. Naso all’insù, si sale, sette cappelle a bordo strada, a scandire il il fiato corto degli atleti, ad accompagnarli alla fine della corsa, cammino e pellegrinaggio in cerca della grazia ciclistica.
Il muro è musica, cavalcata delle Valchirie, cinema, 2001: Odissea nello Spazio, letteratura, Don Chisciotte della Mancia. La Freccia Vallone è finale, sorpresa, lotta all’ultimo chilometro. E’ sul muro di Huy che tutto si decide, esame di maturità, laurea e dottorato, tutto insieme, in un colpo solo. Il resto esiste, passa chilometro dopo chilometro, duecento, ma è sugli ultimi mille trecento metri che tutto accade e tutto si disegna. Uno sprint verticale, con la strada che si irrigidisce prima al 10, poi al 18, infine al 26 per cento, spalla contro spalla, gomito a gomito, sino all’accelerazione decisiva, quella che lascia gli altri sui pedali e fa decollare il primo verso il paradiso del Chemin. Così dal 1983, il primo a domarlo Bernard Hinault. Prima la Flèche era altro, il muro di Huy spartiacque, determinante sempre, decisivo spesso. Si saliva, poi si scendeva e si andava altrove. Prima Liegi, poi Charleroi, Marcinelle, Vervier, infine Huy, ma bassa.
Seconda puntata del romanzo delle Ardenne. Poca pianura, un saliscendi continuo, dal 1936. Classica, ma non monumento, troppo poche 78 edizioni, ma un pedigree importante, sontuoso. Marcel Kint il primo grande specialista, Fermo Camellini il primo straniero, italiano, a centrare il successo nel 1948, Ferdi Kubler il primo straniero, svizzero, a fare doppietta, 1951, 1952, davanti a campioni come Bartali, Oeckers, Robic e Coppi, che l’anno precedente si involò solitario per 100 chilometri.
Freccia belga, spesso, italiana a volte. A ondate. Gli anni 60 di Poggiali e Dancelli, gli 80 di Saronni e Beccia, anticipati da Moser sul finire dei 70. Poi belga a volte e italiana spesso. Gli anni 90 si aprono con i tre assoli sul muro di Moreno Argentin, a suo agio sul suo terreno preferito, la scalata a pedali. Nel mezzo le fughe disperate e a buon fine di Furlan e Fondriest. Si chiudono con Michele Bartoli, con il duello all’ultimo sangue con Den Bakker sotto un pioggia incredibile, un freddo cane. L’affondo alla quarta cappella, lì dove il muro sembra farsi insuperabile, le pendenze si impennano al 23 per cento, lacerano i muscoli, bloccano il respiro e le ruote slittano sull’asfalto fradicio. Si svolta il secolo, Casagrande, 2000, Di Luca, 2005, e Rebellin, 2004, 2007, 2009: record, condiviso, ma pur sempre record, perché la Flèche non la si vince più di tre volte, è regola e tradizione, soprattutto maledizione o forse rispetto per il Chemin, che rimane luogo sacro, che condivide e moltiplica. Ma solo tre volte.