Gent-Wevelgem. La moltiplicazione di Biniam Girmay

Gent-Wevelgem. La moltiplicazione di Biniam Girmay

28/03/2022 0 Di Giovanni Battistuzzi

Biniam è un suono dolce, come una lacrima di gioia e commozione. Girmay è invece un rumore aspro, graffiante, come uno scatto in bicicletta, come la catena che scende sui pignoni. Uno schiocco che è un rintocco, ripetuto, perché uno non basta mai. Come in una litania. I suoni della bicicletta sono un mantra che si muove veloce ovunque che spazio da percorrere.

Il deragliatore si muove di continuo, indurisce e alleggerisce l’incedere delle biciclette. Contare le volte che scatta, che modifica il corso della catena è impossibile. Quantificabile certo, ma mai davvero, perché non conta, ce ne si accorge nemmeno, un numero tra i tanti che non si trovano nelle statistiche.

Il deragliatore però si è mosso, è sceso. Un ting, impercettibile, ma visibile, e per due volte. Ting ting. Due volte non come le altre, almeno per Biniam Girmay, almeno per la Gent-Wevelgem. E forse per qualcosa di più.

E sì che poteva finire diversamente. Wout van Aert aveva messo tutti dietro, fatto luce tra lui e gli altri sul Kemmelberg, ma i chilometri tra il Kemmelberg e l’arrivo sono tanti e la luce troppo fioca per pensare di far corsa solitaria. Piano piano rientra qualcuno, poi quel qualcuno si trasforma in folla e, soprattutto, in un niente di fatto.

Ventiquattro chilometri dall’arrivo. Christophe Laporte si alza sui pedali e scatta. C’è un ting tra tanti. Qualche dente in meno, qualche metro in più a ogni pedalata. Un ting che proviene dalla bicicletta di un ragazzo, anch’esso in piedi sui pedali, che insegue la ruota posteriore del francese, Biniam Girmay.

Laporte coglie il momento buono, quello giusto. Se ne va. Non desiderava la solitudine, preferiva avere un sparuta compagnia, va sempre così quando il piano impera e le alture sono soltanto uno sfondo al proprio incedere. E una sparuta compagnia aveva trovato: Biniam Girmay, Jasper Stuyven, Dries van Gestel.

Quattro teste, quattro cuori, otto polmoni e otto gambe per ventitremila metri. Un tattico non avrebbe avuto nulla di ridire: la condizione migliore per non farsi riassorbire dal gruppo.

Christophe Laporte è uno di quelli che nessuno vorrebbe avere al fianco in un finale di corsa. Perché è tosto, resistente, scaltro e veloce. Pure Jasper Stuyven è uno che nessuno vorrebbe avere affianco in un finale di corsa e per gli stessi motivi.

Biniam Girmay e Dries van Gestel però non avevano nessuna intenzione di fare la parte delle comparse perché in una corsa di quasi duecentocinquanta chilometri si sa mai come va a finire. Perché si sa mai davvero come si arriva di gambe a poche centinaia di metri dallo striscione d’arrivo.

Le gambe di Biniam Girmay è da un po’ che girano bene e pure lassù, al nord, lì dove non c’era mai stato, almeno di questa stagione. Poco male. Perché Biniam Girmay una cosa ha sempre detto: mi adatto.

Lo aveva detto la prima volta che era arrivato in Europa per correre; la prima volta che aveva affrontato una salita alpina; la prima volta che si era messo a inseguire uno di cui ne parlavano un gran bene e che aveva in sé tutta la fame cannibalesca del ciclismo. Prima tappa del Aubel-Thimister-Stavelot, subito a ruota di Remco Evenepoel e davanti a lui all’arrivo. Sempre Belgio, ma altro Belgio: Vallonia non Fiandre.

Mi adatto. Un adattamento che aveva uno scopo quello di vincere nelle Ardenne, perché era lì che andavano i suoi sogni.

Si è adattato pure alla Gent-Wevelgem. Cambi regolari, ma fino alla lanterna rossa. Lì è rimasto dietro, a chiudere il gruppo, perché c’è niente di meglio che partire dall’ultima posizione in una volata tra pochi.

Ting. Il deragliatore che si aziona e lui che si alza sui pedali ancora. Questa volta non per inseguire ma per anticipare. Perché così si fa quando l’arrivo è a un passo. E soprattutto quando si è fianco a fianco con gente come Christophe Laporte e Jasper Stuyven.

Perché così si fa e basta.

Biniam Girmay è un nome dolce e un cognome graffiante. Un nome e un cognome che sono un nuovo inizio e forse un nuovo universo. Quello del mondo unito del ciclismo.

C’era mai riuscito nessuno a partire dall’Africa e conquistare una classica. C’è riuscito Biniam Girmay.

E forse non poteva trovare luogo migliore. Perché a qualche decina di chilometri di distanza, oltre un secolo prima, il 19 aprile del 1896 a Roubaix, Hippolyte Figaro chiudeva diciassettesimo la prima edizione della Parigi-Roubaix, primo atleta nero della storia di questo sport a completare una classica monumento.

Soprattutto perché c’è nulla di più esclusivo e allo stesso tempo più inclusivo di quella terra di pietre da cavalcare in bicicletta. Ché il pavé è aperto a tutti, basta pedalarlo, diventare tutt’uno con esso. Vale per i corridori, vale soprattutto per le corse. I muri se li scambiano, sono territorio comune di tanti. Perché lassù al nord la bicicletta è una festa popolare e la festa è condivisione. E soprattutto è sempre meglio moltiplicarla che dividerla.

Biniam Girmay è moltiplicazione anch’esso. Di spazi e di confini. Di realtà e di passione. E alla Gent-Wevelgem anche di velocità e di sorpresa.

Perché prima o poi doveva succedere che uno come Biniam Girmay salisse sul gradino più alto del podio. E vedendo le prime gare di quest’anno tra i muri delle Fiandre era perfettamente possibile che potesse accadere anche queste latitudini. Quel giorno è arrivato domenica 27 marzo 2022.