
Giro d’Italia. De Marchi e gli altri. Arrivederci amore, ciao
20/05/2021Prima della gioia di Andrea Vendrame e degli sbuffi di rammarico degli altri avanguardisti di prima linea (Chris Hamilton, George Bennett e Gianluca Brambilla). Prima del tentativo di rivolta di Giulio Ciccone supportato da Vincenzo Nibali e dell’riesplorazione del brivido della discesa dello Squalo (sette secondi guadagnati, un niente per la classifica, molto per il morale). Prima del vagare appenninico in compagnia del gruppo, intimorito dalla velocità ascensionale della maglia rosa Egan Bernal a tal punto da mettere tempo tra loro e la volontà di provare a ribaltare quanto sinora il Giro d’Italia ha detto. Prima di tutto questo è stato il tempo degli addii.

Quello di chi è rimasto addosso la terra e i sassi degli sterrati toscani: Gino Mäder che alla partenza di Siena si è presentato bendato quasi come una mummia. Quello di chi ha ceduto al sommarsi di sfighe e problemi fisici, di cose che non sono mai andate: Fausto Masnada. Quello di chi ha subito i contraccolpi dell’aria che cambia, della pioggia che cade: Alex Dowsett, fregato dai problemi intestinali. Quello di chi ha assaggiato l’asfalto e l’ha trovato sgradevole: Kobe Goossens e Marc Soler, finiti a terra, rialzatisi in qualche modo, ma costretti dalle circostanze a sedersi in ammiraglia. Quello di chi sull’asfalto non riusciva ad alzarsi, bloccato dai dolori e dalla difficoltà di respirare: Alessandro De Marchi che cadendo si è fratturato diverse costole e una clavicola.
Un saluto, la speranza è che sia un arrivederci all’anno prossimo. Una canzone d’amore che si interrompe. Che altro è il Giro se non un’amore. C’è mica altro che ti manda avanti per tre settimane a pedalare. Il pedalare è sentimento, “il più alto e puro sentimento che ci sia. Potrebbe essere altrimenti? Solo questo sa evitare all’uomo di pensare alla fatica che mangia muscoli e mente”, scrisse lo scultore francese Aristide Maillol.
Insieme a te non ci sto più / Guardo le nuvole lassù / E quando andrò / Devi sorridermi se puoi / Non sarà facile ma sai / Si muore un po’ per poter vivere / Arrivederci amore ciao / Le nubi sono già più in là / Finisce qua / Chi se ne va che male fa?
Chi se ne va che male fa? Alcuno. Eppure il dolore c’è, fisico, ma non solo. C’è la delusione di non essere riuscito a finire ciò che si aveva iniziato, a non concludere quello per cui ci si era preparati. Mica si arrendono i corridori, quelli veri, quelli che non considerano le corse a tappe soltanto come un abaco dove sommare vittore. Continuerebbe a pedalare sempre un corridore, indipendentemente da tutto. Direbbe mica “Assieme a te non ci sto più” al Giro, come cantava Caterina Caselli sulle parole di Vito Pallavicini e sulle note di Paolo Conte.
Non lo avrebbe detto certo Alessandro De Marchi. Un Giro del genere l’avrebbe voluto concludere a Milano. E non tanto per i due giorni in maglia rosa vissuti. Per quello che avrebbe potuto ancora tentare di fare. Fughe da intercettare e da portare all’arrivo, possibilità di stupire e stupirsi, una vittoria da conquistare come ancora non è riuscito a fare, non al Giro almeno, ma che avrebbe potuto far sua.
I ciclisti non sono fatti per stare a terra. Non la dovrebbero neppure toccare, ci sono i tubolari che adempiono a tutto questo. I ciclisti sono albatros, “L’alato viaggiatore com’è maldestro e fiacco, / lui prima così bello com’è ridicolo ora!“, così almeno per Charles Baudelaire. Non sono fatti per il suolo. Ogni tanto capita. Ci si rialza e si prova a continuare.
Io trascino negli occhi / Dei torrenti di acqua chiara / Dove io berrò / Io cerco boschi per me / E vallate col sole / Più caldo di te
Nuovi boschi arriveranno e vallate soleggiate. Il Giro per loro tornerà, per tutti gli altri continuerà. Si molla mai.