Il Giro e tutte le Dolomiti di Dino Buzzati

Il Giro e tutte le Dolomiti di Dino Buzzati

21/05/2016 0 Di Giovanni Battistuzzi

L’amore nacque per prossimità. Lui bambino e lo Schiara che dominava vezzoso fuori dalla porta di villa Buzzati a San Pellegrino di Belluno. Rimaneva incantato a guardare all’insù, quel costone di roccia rosacea che fa da cima al monte e quell’ago di pietra che svetta in millenario equilibrio. La chiamano la Gusèla del Vescovà (ago del vescovo) ed è incanalatore di sogni e leggende. Dino Buzzati pur vivendo a Milano, tornava tra i suoi monti appena ne aveva l’occasione. Lì tra le Dolomiti del basso bellunese, che in tanti sottovalutano, trattandole alla stregua di montagnucce di serie b rispetto alla maestosa bellezza di guglie, vette e crepacci di quelle più a nord, diceva di trovare se stesso, di riscoprire la vera montagna. Quella che oltrepassa la banalità della fotografia da cartolina. Quella che non è nemmeno avvicinata dalla mondanità cittadina in trasferta. Quella che nel fine settimana verrà occupata da centinaia di biciclette. Perché questo è quel periodo dell’anno nel quale il Giro ritorna lassù, come è tradizione che sia. Quest’anno il programma prevede la 14esima tappa, che recita Alpago-Corvara 210 chilometri, che negli ultimi 150 non ammette pause e avrà per attori il Pordoi, il Sella, il dino-buzzatiGardena, il Campolongo, il Giau, il Valparola, ossia tutto il meglio che c’è (Fedaia/Marmolada a parte), ossia un massacro per muscoli e fiato.

 

Le Dolomiti incantano e impauriscono i ciclisti, “sono uno spettacolo indimenticabile e maligno”, disse Fausto Coppi, “sono donne magnifiche e al tempo stesso crudeli”, replicò Bartali. Sono diverse da quelle di Buzzati. Quelle dello scrittore iniziavano dove finivano quelle di Coppi e Bartali, di Nencini e Gaul, di Anquetil e Balmamion. Erano vette non passi, scenari non imprese, vipere di terra non serpentoni di asfalto o ghiaia.

 

Tappa10-k3VH-U801272405067bMH-620x349@Gazzetta-Web_articolo

Il debutto dei Monti Pallidi nella corsa rosa è regale: 17esima tappa del Giro del 1937, Vittorio Veneto-Merano, 227 chilometri. Il traghettatore è il Rolle. Sotto il Cimon della Pala, accanto alla chiesetta che segna il Passo, è Gino Bartali a scollinare primo e solo. E’ avanguardista ed esploratore. Ginettaccio testa queste salite toste, di aria rarefatta e pareti selettive, strade in sassi dimenticate da stato e Dio. Lui borbotta e maledice tutti. Fa il vuoto. Supera il Costalunga, poi Bolzano. A Merano è primo con oltre cinque minuti e mezzo su Mollo, Generati e Valetti, con 8’18” di vantaggio su quest’ultimo in classifica generale. Quella del toscano è la prima storia ciclistica delle Dolomiti. Da lì in poi si trasformeranno in mito.

 

Quelle di Buzzati erano invece montagne bipedi, di scarponi e di sentieri, di incanto negli occhi e ore di scarpinate verticali. Erano richiamo irrinunciabile, soluzione e condanna al suo bisogno di assoluto. Quasi sempre erano solitudine, vagabondaggio con mete variabili, che cambiavano al mattino alla vista del cielo, annunciate a qualcuno, perché così va e così si deve quando si sale in quota.

 

Ogni tanto quelle ascensioni a piedi incontravano quelle a pedali dei corridori. “Un giorno il professore mi disse, Timio, andiamo a vedere i corridori”, ricorda Antimio Zonan, “vecio can belumat”, per ammissione, per anni sessant’anni guardiabosco e guida alpina. “Era il 1966 o giù di lì. Non l’avevo mai sentito proporre una roba del genere. Gli dissi: ‘Sta scherzando?’, rispose: ‘No, andiamocene a vederli dall’alto’. Restammo fuori tre giorni. Salimmo sul San Sebastiano – continua –, nel costone che domina il Passo Duran. Era una bella giornata quasi estiva, faceva caldo e sotto di noi c’era uno spettacolo di colori che non avevamo mai visto in quota. Era tutto una macchia di colore, persone assiepate lungo l’asfalto e formiche colorate che si scan0002arrampicavano su per il Passo. Fu lì che mi disse: ‘Faticare su di una parete o su di un sentiero ti avvicina al mondo, faticare su di un passo invece è dannazione, pura sofferenza”.

 

Sotto di loro, per le vie dolomitiche discendeva la ventesima tappa di quel Giro. Era il 7 giugno del 1966, era la Moena-Belluno, 215 chilometri. Tra partenza e arrivo il Pordoi, il Falzarego, le Tre Croci, l’erta di Cibiana, il Duran. Lì verso la cima dell’ultimo passo nove avanguardisti scandivano il ritmo, mettevano chilometri e minuti tra loro e tutti gli altri. Erano i migliori: c’era la maglia rosa Gianni Motta, e tutta l’alta classifica  Jaques Anquetil, Franco Bitossi, Joseph Huysmans, Vittorio Adorni, Julio Jiménez, Franco Balmamion, Italo Zilioli. Soprattutto c’era la classe di Felice Gimondi. Scendendo dal Duran il campione prese il largo, con una azione testarda e violenta staccò tutti, raggiunge Belluno solo e vincente.

 

Pedalavano inconsapevoli degli occhi di Buzzati che li scrutavano dall’alto. Pedalavano inconsapevoli come pedalano sempre i corridori, tra ali di folla esultanti, applausi, incitamenti, qualche spinta, ignari degli occhi che li guardano, persi solo nella loro fatica. Buzzati riconosceva questa, l’ammirava da buon camminatore montanaro. Il Giro lo affascinava perché “è una delle ultime città della fantasia, un caposaldo del Romanticismo, assediato dalle squallide forze del progresso, che rifiuta di arrendersi”, scrisse nell’articolo conclusivo del suo viaggio con il Giro d’Italia del 1949. Buzzati seguì per il Corriere della Sera quell’edizione. Era quella della vittoria forse più bella di Fausto Coppi: quella della Cuneo-Pinerolo, dei 192 chilometri di fuga, del “c’è un uomo solo al comando, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome Fausto Coppi”, pronunciato da Mario Ferretti in apertura della radiocronaca della tappa del 9 giugno. Raccontò le imprese del Campionissimo, un Achille a pedali, e del suo sfidante Ettore, Gino Bartali, nonostante, per sua stessa ammissione, non avesse “mai visto una corsa ciclistica su strada”.

 

Buzzati “era però poco interessato al ciclismo, non si era mai veramente appassionato” ricorda Zonan. Tutto quel clamore “lo considerava un brusio non gradito, qualcosa che stonava nella calma montana”. Eppure “le biciclette al professore piacevano, gli piaceva pedalare, anche fare strada, ma in modo disinteressato, senza fretta”. Lui che raccontò nel terzo articolo della serie di essere stato multato per eccesso di velocità per aver seguito “per ben due giri interi del Parco la ruota, giuro, di Alfonsina Strada”, preferiva la lentezza. Di tanto nobili inizi rimasero solo pochi scritti e un “divertimento privato che al massimo si manifestava in qualche gita lungo il Naviglio o verso la Brianza, ma in montagna mai, perché in bicicletta non ti accorgi di quanta bellezza c’è attorno, ti accorgi solo della faticaccia cane che c’hai sotto il culo. Queste sono parole mie, il professore probabilmente ne avrebbe scelto di migliori”.