
Tra le Tre Cime di Lavaredo del Giro di Vincenzo Nibali. Dieci anni dopo
26/05/2023Dieci anni fa, sulle Tre Cime di Lavaredo del Giro Vincenzo Nibali vinceva la penultima tappa della corsa rosa anno del Signore 2013. Dieci anni fa, mentre i corridori vagavano per l’Italia, muoveva le prime pedalate Girodiruota.
Il testo che leggerete qui sotto è tratto da “Girodiruota. Viaggio in bicicletta, tappa dopo tappa, alla ricerca del Giro d’Italia“, il libro che racconta il viaggio di Giovanni Battistuzzi da Napoli al Brescia, luogo di partenza e sede d’arrivo del Giro d’Italia 2013.
Mantova, tutto sommato, le cose per i ciclisti non vanno malissimo. Ho visto di molto peggio. Il centro storico è quasi totalmente pedonale, le macchine stanno attente, abituate al traffico a due ruote, c’è un bel lungolago da percorrere in bicicletta. Quando non piove molto, s’intende. Oggi non è il caso. Tutto sott’acqua.
Anche arrivare in città non è malaccio. Una bella pista ciclabile parte da Cerese e arriva alle porte del centro. Lontana da macchine, dalla statale, dai pericoli delle vie trafficate. L’hanno ricavata ai lati della principale, sotto, lungo la campagna depressa (nel senso sotto quota) rispetto al percorso stradale. Ben tenuta, punti d’acqua, qualche famiglia a zonzo, nonostante il tempo non sia dei migliori. Per le campagne diversi percorsi che portano ai paesi vicini. Sicuri, per quanto distanti dalle zone inurbate. Può essere un compromesso, ove possibile, alle corsie preferenziali ai lati della strada. Il problema è che la ciclabile si interrompe, una volta in città, in una strada piena di macchine e diventa, al di là del passaggio a livello, separata dalla strada, piena di passi carrabili, in condivisione con i pedoni e abbastanza mal tenuta. Ma il sindaco vuole cambiarla e creare una preferenziale.
Meta finale: Desenzano del Garda. Due le alternative. O le provinciali, tutte molto trafficate, per un totale di cinquanta chilometri, oppure il lungo Mincio sino a Peschiera e poi il lungolago, per un totale di circa settanta chilometri, chilometro più, come nel mio caso che mi sono perso, chilometro meno.
La decisione è scontata. Ciao ciao auto, mi immergo nella ciclovia Mantova-Peschiera. Mai scelta più azzeccata. Eliminare le auto è gustarsi appieno la bellezza del pedalare. Quasi. Il problema non è la ciclovia, ma il clima. Due chilometri e inizia a piovere, prima piano, goccia a goccia, poi dopo circa venti chilometri un diluvio. La temperatura si aggira attorno ai dieci gradi. E c’è vento, freddo, tagliente, per fortuna a favore. Spingo al solito, movimento lento, solo che faccio, senza accorgermene, una media di 30
all’ora. A metà percorso, a Volta Mantovana, l’unica oasi di ristoro. Un bar.
Piove che Dio la manda. Mi fermo.
“Un tè caldo, grazie”. È il 25 maggio e sembra novembre. La ciclovia è ben tenuta, asfalto ogni tanto rugoso, ma va bene, la velocità in bici non è essenziale, anzi non serve. A poco all’ora ci si gode meglio il
paesaggio e il lungo Mincio è un fior di paesaggio. Natura. Era ora, dopo le strade affollate del basso Po è un’oasi di benessere.
“Sono sempre più le persone che decidono di andare a pedalare su questa strada. Una crescita esponenziale negli ultimi anni”, mi dice il proprietario del bar. Faceva il muratore, ha deciso di cambiare vita, puntare sulla bicicletta, “era il momento. Ho aperto da tre anni e sono contentissimo. La natura, la rilassatezza della campagna e dei ciclisti. Faccio cose semplici, senza pretese, ma chi va in bici è così, come me, apprezza le cose genuine, le cose belle della vita. Un panino, una birra e una buona compagnia”.
Cambia il turismo e queste zone tornano a vivere. “Se ne sono andati in tanti negli anni passati, ora ritornano, sta cambiando qualcosa. Qui sino a tre anni fa arrivavano solo i tedeschi, ora altra gente, anche italiani, quelli stufi del turismo idiota del lago”. Vuoi mettere. “Qui passano intere famiglie, i bambini si divertono, fanno una passeggiata in bici, se la spassano. Il fiume, i cigni, gli animali, poi arrivano qui e giocano nel prato. Sono nati agriturismo, bed and breakfast, la gente riscopre la natura, fa gran passeggiate, va al lago e ritorna. E anche per i genitori è meglio. I bimbi giocano e poi a letto presto. Così magari ci scappa una ciulata”. Turismo piacevole.
La bici rilancia luoghi dimenticati dal turismo a quattro ruote. Peschiera, Sirmione. Nemmeno un bar che fa vedere la tappa. Tappa rivoluzionata, la ventesima. La neve caduta in quota non permette il passaggio sul Costalunga e sul Giau. Il San Pellegrino è aperto al passaggio, ma è l’unico. Per raggiungere Cortina dall’Agordino, da Cencenighe lì dove finisce la discesa del San Pellegrino ci sono due vie: o Giau o Falzarego. Tutti chiusi per neve. Quindi percorso obbligato. Sino a Bolzano non cambia nulla, poi invece di scalare il Costalunga, si prende la Valle dell’Isarco, si supera Bressanone, si entra in Val Pusteria, si scala il Cimabanche, un lungo falsopiano più che una salita vera e propria, si scende a Cortina e ci si immette nel tracciato della tappa che doveva essere. Passo Tre Croci e finale alle Tre Cime di Lavaredo, che dopo l’annullamento della tappa con lo Stelvio diventa per la quinta volta nella storia del Giro la Cima Coppi.
Prima di quest’anno primi in cima a questa salita transitarono Felice Gimondi nel 1967, Merckx nel ‘68, Fuente nel 1974 e Beat Breau nell’‘81, svizzero che l’anno successivo si impose sull’Alpe d’Huez al Tour dopo una fuga infinita.
Proseguo. Arrivo a Desenzano. Prima del paese la pioggia si fa muro. Mi fermo al primo bar. Qualunque cosa sia, qualunque gente ci sia. Harley Davidson Motor bar. La vedo male. Entro. Il Giro in tv. L’oste è un omone, un colosso.
“Che bello, quindi non si vedono solo le moto” provo a rompere il ghiaccio.
Il tipo mi squadra. Sorride affabile. “Ma va’, quella è un’idea di quel cretino del mio figliolo. Non c’ha mai capito un cazzo”.
Ride.
“Io vedo solo le bici. Sono un appassionato. È che sono un ciccione e la uso solo per andare da casa a qui. Un chilometro e mezzo e la vedo che bestemmia a ogni pedalata. Ma mi piace mangiare, è la mia passione, oltre alle corse, ovvio”. In sovraimpressione appare l’altimetria della tappa dopo il taglio delle salite iniziali. “Giro di Nibali ormai”, constata l’oste con il fare di chi ne sa, si gira verso di me “ma sai che secondo me oggi lo Squalo fa il colpo. Sicuramente proverà a vincere con una bella azione. È il più forte e vorrà fugare i dubbi. Vorrà far vedere che è davvero il migliore, che poi sai com’è, i giornalisti dicono che ha vinto un giro amputato e quindi la vittoria vale meno”.
Detto, fatto.
Tra le Tre Cime di Lavaredo del Giro di Vincenzo Nibali
Nibali accelera ai meno tre. Rimangono con lui Uran, Betancur e qualche altro. Scarponi cerca di mantenere il contatto ma la salita lo respinge. Evans perde, ma sembra avercene, resiste, recupera. Nibali si guarda indietro, poi alza il ritmo. Rimangono solo Uran e Betancur. Riaccelera e fa il vuoto.
Avversari sui pedali e via verso il traguardo. La neve fiocca e il palcoscenico diventa bianco, candido e freddo, epico. Nibali pedala nella bufera, al suo inseguimento i colombiani nel clima meno colombiano che ci sia: a Uran e Betancur si aggiunge Fabian Andres Duarte Arevelo, semplicemente Duarte, uno che nel 2008 ha vinto i Campionati del Mondo under 23 nell’impegnativo circuito di Varese (la prova dei professionisti la vinse Alessandro Ballan) e poi si è perso nonostante doti da scalatore fuori dal comune.
Nibali sale leggero su quelle pendenze più adatte all’arrampicata che alla bicicletta. Neve e Giro. Il clima nemico dei corridori, che rende le loro fatiche memorabili. Clima infame, imprese che diventano leggendarie. Una su tutte. Bondone, 1956. Era l’8 giugno, da Merano si scendeva verso Trento, si superava Bolzano, si saliva sul Costalunga, sul Rolle, sul Gobbera, sul Brocon, infine sul Bondone. Pasquale Fornara in maglia rosa, Cleto Maule secondo a nove secondi, Aldo Moser terzo a due minuti. Piove e fa freddo alla partenza. Piove e fa freddo su tutto il percorso. Charly Gaul, che in classifica era distaccato di oltre sedici minuti, scatta sul Costalunga con Dotto e Bahamontes, tutti lontanissimi dai primi nella generale. Il lussemburghese scollina per primo sulle prime due ascese, poi una foratura, viene raggiunto e superato dal corridore dell’Atala Monti, che vince il Gpm del Gobbera. Bahamontes invece si stende tre volte in discesa ed è costretto al ritiro.
Sul Brocon Monte e Gaul allungano. Nino Defilippis vede Fornara in leggera difficoltà e attacca. La pioggia diventa neve. Il lussemburghese lascia sui pedali il suo compagno d’avventura. La discesa è impegnativa e le temperature rendono difficile persino frenare. I due al comando sono costretti a utilizzare anche le suole per rallentare le biciclette. Fornara chiede a Torriani di annullare la tappa a Trento, ma il Patron fiuta la leggenda e con un “si va avanti”, interrompe ogni discussione. Appena prima del capoluogo trentino la maglia rosa quasi congelata entra in un fienile per cercare un po’ di calore, gli offrono un po’ di grappa. Decide di abbandonare la corsa.
Gaul continua. Dietro si ritirano in sessanta, tra i quali anche Nino Defilippis che aveva accarezzato il sogno rosa prima di cadere rovinosamente a terra e risvegliarsi salvo e vivo oltre tre ore dopo in un cascinale, grazie all’intervento di un gruppo di contadini che lo fece riprendere a latte e grappa.
Gaul chiede l’intervento dell’ammiraglia, non sente più i piedi. Learco Guerra gli versa un termos di caffè caldo sulle scarpe e continua. Il traguardo è a un passo, è superato. Gaul stravince, fa l’impresa, annienta
avversari e maltempo, entra nella storia. Sviene. Lo gettano in una vasca piena d’acqua calda. Riapre gli occhi ma passeranno dieci minuti prima che una parola gli esca di bocca. Congelamento. “E la maglia rosa?”.
“È tua”, gli risponde Guerra.
Gaul sorride e si addormenta. Giuseppe Fantini arriva secondo a quasi otto minuti, Magni, con due clavicole rotte e un pezzo di camera d’aria legata al manubrio dal suo meccanico e tenuto tra i denti per alleggerire la pressione sulle parti doloranti è terzo a 12’15”, Bruno Monti, passato secondo a Trento, è ottavo a oltre diciotto minuti. A Milano Gaul vincerà due giorni dopo il suo primo Giro, Magni conquisterà il suo ultimo podio dopo una prestazione quasi eroica, sicuramente stoica. Con loro sul podio Agostino Coletto, piemontese, due Milano-Torino vinte e poco altro.
Nove anni dopo ancora neve, ancora un’ascesa con un tempo infame.
È il 1965. Vittorio Adorni è il favorito: ha vinto il Romandia, va che è una meraviglia. Zilioli lo sfidante. Gimondi il giovane gregario di Adorni che mette il naso fuori per la prima volta. Adorni domina la gara. Vince a Potenza con uno scatto ammazza-avversari sul Pietrastretta, vince a cronometro a Taormina, dando al rivale quasi tre minuti, vince soprattutto a Madesimo dopo aver staccato tutti su uno Spluga imbiancato di neve. Ma la tappa successiva entra nella storia: Madesimo-Solda, che poi diventò Madesimo-Passo dello Stelvio, prima Cima Coppi della Storia. La notte nevica. Fiocco dopo fiocco la strada si copre. Alpini e tifosi fanno il possibile per spalare, lavorano tutta la mattina e il pomeriggio. Il gruppo arriva a Bormio. Via libera, strada spalata. Torna a nevicare. Torriani decide di interrompere la tappa sul Passo. A inizio salita Ugo Colombo e Graziano Battistini si involano. A tre quarti del Passo, i due si trovano ad anticipare il gruppo tra due muri di neve che si fanno sempre più vicini sino a diventare un corridoio nel quale passano solo due bici appaiate. Battistini scatta. Fa un chilometro, poi gli tocca mettere il piede a terra e superare a piedi, bici in spalla, una piccola slavina. Torriani è salito da qualche chilometro su una moto.
Colombo prova a inseguire, ma Battistini taglia primo il traguardo. Seconda vittoria al Giro, primo uomo di sempre a passare primo su una Cima Coppi. Adorni vinse il Giro. Zilioli, l’eterna promessa, l’eterno secondo, a oltre undici minuti. Terzo un giovanissimo Gimondi che a due mesi di distanza vincerà a sorpresa il Tour de France, battendo il superfavorito della vigilia Raymond Poulidor, un altro eterno secondo.
La bufera sulle Tre Cime di Lavaredo incorona invece Nibali, che taglia il traguardo tra i fiocchi candidi della neve di maggio facendo scintillare la sua maglia rosa e la sua classe. Finalmente. A ventotto anni, dopo la Vuelta del 2010 senza nessuna vittoria parziale e una Liegi-Bastogne-Liegi persa agli ultimi metri e una azione spregiudicata, iniziata a venti chilometri dal traguardo sulle toste rampe della Côte de la Roche-aux-faucons, lo Squalo dello Stretto entra tra i grandi della corsa rosa e del ciclismo mondiale. E ci
entra dalla porta principale, nello scenario più spettacolare, le Tre Cime dipinte di bianco e magnificenza. Dopo aver dominato il Giro, dopo tredici giorni in maglia rosa, dopo aver vinto due tappe, dopo aver inflitto agli avversari distacchi che non si vedevano da tempo: 4’43” al colombiano Rigoberto Uran, 5’52” a Cadel Evans. Dal 2006 non si assisteva a una vittoria così netta: Ivan Basso vinse tre tappe e inflisse 9’18” allo spagnolo Josè Enrique Gutierrez, 11’59” a Gilberto Simoni.
Le Tre Cime di Lavaredo del Giro di Vincenzo Nibali, l’ordine d’arrivo
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