Il fascino discreto delle tappe in pianura al Giro d’Italia

Il fascino discreto delle tappe in pianura al Giro d’Italia

08/05/2023 0 Di Giovanni Battistuzzi

Non sempre quando si guarda una corsa in bicicletta si pensa solo alla corsa in bicicletta. Quasi mai in quelle dove la pianura prevale. Le tappe in pianura al Giro d’Italia sono belle anche per questo, perché si ha la possibilità di divagare, di pensare ad altro, di leggere questo e quello, o solo guardare ciò che sta attorno alle gare in bicicletta. Perché di solito le tappe in pianura non sempre hanno granché da dire e proprio per questo gli organizzatori sono soliti imbastardirle un po’, metterci dentro qualche salitina, strappi di solito più pendenti che lunghi, provano a darle un fascino facilmente avvicinabile ai più.

Non hanno bisogno di tutto questo le tappe in pianura. Possiedono un loro fascino discreto, roba per buongustai, a loro modo.

Le tappe in pianura al Giro d’Italia sono curiosità e opportunità. E non tanto per il ciclismo, per noi.

Siamo abituati a guardare davvero i panorami quando sono belli, piacevoli, hanno qualcosa di apprezzabile che è stato riconosciuto dai più. Li guardiamo e poi li facciamo diventare un’altra foto inutili tra le tante di quel singolo scorcio, sempre il solito che viene da chiedersi il perché di tutto questo continuo fotografare quello che è già stato fotografato e spesso molto meglio. Oppure li notiamo, li guardiamo davvero quando ci appaiono inaspettatamente davanti e non si riesce a far altro che spalancare un filo la bocca ed essere contenti.

Lo sport non è poi diverso. Ne esistono a bizzeffe che vivono in un eterno rimpallarsi tra campo stretto e strettissimo, per il semplice motivo che non c’è nulla oltre questo. L’azione è incessante, lo spettacolo è garantito, tutto accade vicino, a pochi metri dal nostro naso.

Nel ciclismo il campo stretto non è comune, quello strettissimo una rarità. È sport da campo largo il ciclismo, a volte larghissimo. E in qualche caso il contesto vince anche sui protagonisti. Spesso in modo sorprendente, quasi paradossale.

Per dieci sfondi meravigliosi che il Giro offre ce ne sono altrettanti che meravigliosi non sono, anzi fanno pure un po’ schifo. E questo è rincuorante. Perché uno di solito pensa che solo attorno a lui c’è un po’ di schifo nascosto dietro l’angolo del “decoro” del centro città o dell’immediata periferia per buone famiglie per bene. È mica così. Bellezza e bruttezza sono distribuite a manazza un po’ ovunque. Di capannoni e case fatte male è piena l’Italia. Rincuora saperlo, ci dà l’idea che il mal comune è mezzo gaudio.

È però mica solo quello che si vede l’interessante. È pure quello che si sente, che si scopre. Tipo che l’Italia è piena di Fonti grandi e Fonti buone, di Quattostrade e Tre case, di toponimi tipa La Cupa, Ombrosa, colli piani o colli pizzuti. Ci si accorge mai di certe cose, che magari valgono poco o niente, ma lasciano a chi sa coglierne il fascino discreto allo stesso modo di un panorama inaspettato.

La toponomastica ha anche il dono di concedere epifania del tutto inutili: tipo che di Ciampino non c’è solo l’aeroporto fuori Roma e che ci sono cognomi a noi parecchio noti che sono in realtà anche nomi propri di paesi, borghi, frazioni.

Ha cambiato mai la vita a nessuno tutto questo – sebbene c’è stato in Spagna gente che per colpa della Vuelta s’è sorbito un po’ di problemi con la legge per colpa di qualche pianta –, però ogni tanto ha aiutato. Conosco gente che ha trovato morosa perché ha attaccato bottone sfruttando il fatto di conoscere il suo paese d’origine che era un buco di nulla in mezzo ai monti Lessini o dell’entroterra ligure. C’è gente che questa cosa l’ha imparata così da giovane che poi c’ha costruito sopra una carriera accademica da paura.

E c’è chi ha scoperto il mondo di Arturo Bandini perché una volta il Giro è passato dalle parti di Torricella peligna, in una di quelle tappe che c’è sempre gente che non hanno nulla da dire. Sarà. Ma John Fante di cose da dire ne aveva a bizzeffe e, per me almeno, vale sempre la proprietà transitiva in questi casi.

Forse chi dice che le tappe in pianura annoiano da morire è solo perché non ha abbastanza fantasia per reimpiegare il proprio tempo, o quel minimo di curiosità per rendere l’incedere dei corridori solo una parte del racconto ciclistico. È anche questo che fa parte del fascino del ciclismo.

Anche perché poi le tappe in pianura al Giro d’Italia sono una lunga attesa per qualcosa di talmente caotico e sfrontato, la volata, che per capire bene davvero come qualcuno ha vinto o ha perso, serve rivederla e rivederla, un prolungamento fuori tempo massimo del piacere.

Tipo quello che è successo domenica nella seconda tappa del Giro d’Italia 2023. Un lungo scorrere verso San Salvo, l’occasione per capirci un po’ di più sui protagonisti della corsa rosa, di guardare paesaggi magnifici ed altri meno, di scoprire cose nuove sul territorio italiano. Soprattutto di scoprire che Jonathan Milan ha lasciato il suo bozzo di bruco per farsi forzuta farfalla.

Le volate hanno anche loro un fascino, non però discreto, debordante. Sono un gioco di gambe velocissime che dura chilometri e chilometri che porta a un gioco ancora più veloce, dove tutto accade in un attimo appena e dove gli spazi, stretti di loro, diventano ancora più stretti. Diventa tutto più stretto a sessanta chilometri all’ora. E quando si vede un uomo che quegli spazi li sa prendere, farli diventare autostrade, come ha fatto a San Salvo Jonathan Milan, non si riesce a far altro che spalancare un filo la bocca ed essere contenti.