Girodischi. Il Giro d’Italia è immaginazione

Girodischi. Il Giro d’Italia è immaginazione

10/05/2021 0 Di Giovanni Battistuzzi

T’immagini se… Quante volte se lo sono chiesti i ciclisti. Quante volte in un Giro d’Italia. T’immagini se… se lo ripetono ogni giorno chi parte all’avventura, corre minuti avanti al gruppo all’inseguimento di un qualcosa che nove volte su dieci evapora proprio sul più bello, quando i chilometri alle spalle sono molti di più di quelli ancora da percorrere.

Già, t’immagini se… Va quasi mai a finire bene però. Però ci si deve credere, perché a qualcosa ci si deve pur appigliare. Qualcosa come una fede, un pensiero, una fantasia.

Fantasie, fantasie che volano libere / Fantasie che a volte fan ridere / Fantasie che credono alle favole

Fantasie sì, come quelle di Vasco Rossi in “T’immagini“. Immaginazione sfuggenti come una fuga, come i sogni di chi si illude che quello si il giorno buono, quello nel quale l’immaginario si fa reale.

Il Giro d’Italia, come tutte le grandi corse a tappe, è il regno dell’immaginazione. Più di tutte le altre gare, perché ogni tappa è composta da un numero di variabili maggiori. Quella che riguarda le velleità degli uomini di classifica, quella che riguarda le velleità dei velocisti, quella che riguarda la volontà di gestire le energie, di considerare più importante quelle del presente o quelle che si vorrebbero trattenere per il futuro. È un calcolo di opportunità nel quale si rincorrono valutazioni spesso complicate. Talmente complicate che si rischia di sbagliare la formula giusta, quella che vorrebbe che fossero sempre i notabili a giocarsi i primi posti.

E allora ci si prova, sperando nell’errore di valutazione altrui. Ci si ripete: t’immagini che invece va a finire davvero così, come se lo si era immaginato.

L’immaginazione a volte ci prende. E può essere spossante quando capisci che il momento buono è andato, che non la si è inseguito a sufficienza.

Quel momento l’ha visto andarsene Simon Pellaud dell’Androni Giocattoli sullo strappo di Occhietti, a poco più di sei chilometri dal traguardo della terza tappa del Giro d’Italia, la Biella-Canale. Era lì con Taco van der Hoorn avanti a tutti, ancora, dopo oltre centottanta chilometri di fuga. Aveva inseguito quell’immaginazione per un giorno intero, poi non ha avuto le forze per fare l’ultimo passo.

Quel momento l’hanno visto andarsene anche Tony Gallopin dell’Ag2r e Giulio Ciccone della Trek-Segafredo quando dopo aver tentato l’azzardo sull’ultimo Gpm di giornata, la salita che portava a Guarene, hanno sentito prima il ronzio del gruppo avvicinarsi, per poi essere inghiottiti da questo.

Quel momento invece lo ha afferrato Taco van der Hoorn. L’ha acchiappato all’ultimo, quando pensava che fosse impossibile. Era già un miracolo che fosse al Giro, il suo primo Giro, quello che mai avrebbe neppure osato immaginare quest’inverno quando nessuno sembrava disposto a offrirgli un contatto dopo due anni di lavoro sporto alla Jumbo-Visma. E invece quello era proprio il momento buono, quello nel quale il t’immagini che invece va a finire davvero così, va a finire davvero così. Primo a braccia alzate sotto il traguardo.

Qualcosa di incredibile, talmente incredibile che l’olandese ha fatto fatica a crederci anche quando lo striscione d’arrivo era alle sue spalle e nessuno davanti a lui. E pure dopo, dopo essere sceso di bicicletta, dopo aver ritirato il premio riservato al vincitore.

T’immagini? No, non me lo immagino, ma che goduria.


La prima puntata di Girodischi la potete leggere qui