La levità di Hugh Carthy

La levità di Hugh Carthy

30/04/2021 0 Di Giovanni Battistuzzi

Il primo novembre dell’anno scorso, mentre si arrampicava sull’Angliru nel corso della 12esima tappa della Vuelta, Hugh Carthy decise a circa milletrecento metri dall’arrivo che l’unica cosa da fare era aggrapparsi alla speranza che il ciclismo non fosse uno sport scientificamente esatto, un calcolo preciso di watt e velocità. Per questo gettò via il suo misuratore di potenza e decise di andare avanti a sensazioni. Ossia quello che oltre un secolo prima l’Avocatt Eberardo Pavesi definì Sentimento, la capacità di estraniarsi dalle dinamiche di gara diventando tutt’uno con la bicicletta: “Trasformare carne, testa e ossa in puro acciaio”.

Si alzò sui pedali e accelerò fregandosene di quello che il computerino sul manubrio avrebbe potuto dire. “Ho deciso di toglierlo per risparmiare un po’ di peso, per rendere la bici la più leggera possibile. Non sapevo quanti watt stessimo facendo e mi sentivo benissimo”, ha detto a Ciclismo Internacional.

Sapeva che quella era l’ultima sua cartuccia, che non avrebbe avute altre da sparare. Era consapevole che quello non era il miglior momento per cercare la solitudine: Richard Carapaz stava incrementando la velocità per staccare il più possibile Primoz Roglic e ormai erano rimasti in pochissimi con l’ecuadoriano. E nemmeno il miglior posto: prima di un tornante. Ma decise di fregarsene pure di questo. Era dominato dal Sentimento, quello gli bastava, gli era sempre bastato. Aveva o no seguito sempre questo nella sua vita?

Hugh Carthy si sentiva lieve, non aveva nulla da perdere né da dimostrare. Per l’ennesima volta in carriera.

Accelerò, caracollò al suo solito modo scomposto e goffo, ignorando consapevolmente quel che accadeva alle sue spalle. “Solo quando mi sono guardato indietro a 500 metri dal traguardo e non ho visto nessuno nelle vicinanze, ho capito di avere la tappa in saccoccia”.

L’inglese lo striscione della 12esima tappa della Vuelta 2020 lo attraversò per primo. Sei giorni dopo salì sul podio di Madrid: terzo.

La frazione che terminava in cima all’Angliru, o meglio seicento metri dopo la cima dell’Alto de l’Angliru, è la miglior rappresentazione possibile di Hugh Carthy, del suo peregrinare sempre a distanza di sicurezza dallo scontato, della sua capacità di fregarsene del semplice per affidarsi al gusto incerto dell’istinto.

È dada Hugh Carthy. Combatte il ciclismo con il ciclismo, si trova con naturalezza a pedalare nella dimensione opposta di ogni certezza.

È un lungagnone di oltre un metro e novanta, ma che ha trovato nella salita la sua dimensione. È un ragazzo secco come un giunco ma con le guanciotte da bambino. Ha il sorriso furbo e l’espressione un po’ svagata di un Kevin McCallister alle prese con una casa da difendere. È inglese, ma ha trovato in Spagna la sua patria. È un po’ sgraziato in sella, pedala storto, ma è bellissimo vederlo muovere i pedali. Ride e si diverte, ma sta bene da solo, lontano da tutti, perché in fondo “sono felice quando pedalo. Mi piace girare i pedali, mi piace gareggiare, mi piace allenarmi. Mi piace faticare e sentire che sto facendo qualcosa per migliorarmi. Vedere e imparare cose nuove, spingere un po’ più in là i miei limiti. Mi piace sentirmi parte della bicicletta”, ha detto a VeloNews.

Hugh Carthy è lieve, accetta quello che arriva, perché sa che quello che arriva è frutto di quanto ha costruito.

Ha lasciato l’Inghilterra per imparare, per immergersi nell’Europa ciclistica, perché correre calcolando vam watt soglia e cose del genere non era cosa per lui.

Si può ingabbiare in statistiche l’ebbrezza del vento che genera la bicicletta?

È sceso in Spagna da solo, ha scelto Pamplona, casa madre della Caja Rural – la squadra che l’ha fatto passare tra i professionisti – perché lo affascinava il vivere nella città di Indurain, soprattutto in un luogo dove ci si può isolare. “È tranquilla come città, un città piena di discrezione che ha una buona eredità ciclistica. Quando vai a vivere all’estero hai bisogno che le persone capiscano quello che stai facendo, anche se è semplice come andare al aeroporto. Diranno ‘Va bene, gli do un passaggio, anch’io sono un ciclista, lo aiuterò'”, ha confidato a Procycling nel 2017.

Poteva finire altrove, ma decise di ignorare le facili sirene che conducono i corridori inglesi a Girona. “Se sei in un posto come Girona e te ne vai al supermercato a fare la spesa al supermercato, può capitarti di incontrare un altro corridore. Magari la sua stagione è straordinaria e la tua stagione uno schifo e allora ti inizi a dire: ‘Ah, cazzo perché non riesco ad andare io così?’. E in questo modo ti incasini ancora di più. Preferisco vedere gente che non mi ricorda gli insuccessi, mi fa stare più tranquillo”.

Da Pamplona se ne è andato solo per avvicinarsi alle montagne. Tutto il resto non è cambiato di una virgola. Pedalare in sella a una bicicletta rimane per lui ancora il suo unico e possibile universo. Un universo di levità e tranquillità. “Mi fa bene la bicicletta, mi fa dare il giusto peso ai casini della vita”.

Hugh Carthy sabato 8 maggio partirà da Torino per il suo quarto Giro d’Italia. Il suo primo da capitano. “Ho avuto il via libera dalla squadra per fare classifica, per essere aiutato da tutti gli altri. È il mio grande obbiettivo per questa stagione. Vedremo un po’ come andrà”, ha detto a VeloNews. Non è nervoso l’inglese, sa benissimo che non serve. “Può accadere qualsiasi cosa, posso arrivare tra i dieci, tra i cinque, sul podio, vincerlo oppure niente di tutto questo. È tutto molto più semplice di quello che sembra. Si tratta di pedalare e farlo al meglio delle mie possibilità”. La maglia rosa d’altra parte ce l’ha addosso, quella della EF Education – Nippo. Se ce ne sarà un’altra per lui lo scopriremo strada facendo. D’altra parte il suo motto è sempre lo stesso “prendi ogni giorno come viene, goditi ogni tappa e poi vai avanti il più velocemente possibile”.

Lui la fa semplice. Allo stesso modo di come ha reso semplice la firma del nuovo contratto con la EF. “Ho scelto di rimanere semplicemente perché in questa squadra mi sento bene”, ha riferito a Cyclingnews, decidendo così di non accettare il ben più ricco ingaggio offertogli dalla Ineos.

Lui la fa semplice, perché dovremmo complicarla noi che non pedaliamo?