
Il mistero Fabio Aru (che è tornato a sorridere)
11/01/2021È da oltre due anni che il sorriso è svanito dal volto di Fabio Aru. L’ultima volta è apparso su di un podio giallo a oltre millecinquecento metri d’altitudine il 13 luglio del 2017. S’era da poco conclusa la dodicesima tappa del Tour de France e il corridore sardo su quel palco c’era salito per coprire la sua maglia tricolore di campione italiano con quella gialla di leader della Grande Boucle. Sul rettifilo di settecento metri al quattordici per cento che portava in cima al Peyragudes, solo Romain Bardet e Rigoberto Urán gli erano finiti davanti. Tutti gli altri gli avevano visto le spalle, tra loro Chris Froome, distanziato di venti secondi, sei in più di quelli necessari per resistere al primo posto in classifica.
Alla maglia gialla Aru ci era arrivato prima staccando tutti sui Vosgi, primo a raggiungere La Planche des Belles Filles (quinta tappa), poi contribuendo a sgranare il gruppo dei più forti sul Mont du Chat verso Chambéry (nona tappa).
Sembrava la continuazione perfetta di un’ascesa che l’avrebbe condotto tra i vincenti del ciclismo. Non era così. Perché da quel 13 luglio del 2017 le salite, lì dove era diventato vincente, non hanno più visto Fabio Aru tra i protagonisti (a eccezione della quarta tappa della Tirreno-Adriatico del 2018, quella che finiva a Sassotetto, quarto).
Possibile che un corridore capace di salire sul podio due volte al Giro d’Italia (con tre tappe vinte), di vincere una Vuelta a España, di staccare in salita Alberto Contador, Nairo Quintana, Chris Froome e tutti gli altri migliori scalatori si sia trasformato in un corridore da centro classifica?
Gli ultimi due anni hanno detto questo. I prossimi chissà.
Due anni che per Aru sono stati complicati, fatti di intoppi fisici, tra tutti l’operazione per eliminare la costrizione dell’arteria iliaca della gamba sinistra (inizio del 2019) e scelte sbagliate, come tornare troppo presto a correre dopo l’intervento chirurgico, presentarsi al via dell’ultimo Tour de France in condizioni fisiche non ottimali. Due anni buttati nei quali l’ossessione di dimostrare di essere un corridore d’alta classifica lo ha adombrato, quasi cancellando in lui anche il piacere del pedalare.
“Avevo un unico pensiero fisso: riprendere da dove avevo interrotto. Volevo essere il corridore che ero prima dell’operazione e non accettavo di dover aspettare. Senza accorgermene avevo iniziato a vivere in un’ossessione: volevo recuperare i mesi persi e lo volevo fare il più in fretta possibile, senza però accorgermi che il tempo era passato e avevo bisogno di lasciare tempo al tempo”. Era l’ottobre del 1987 quando Laurent Fignon si “confessò” all’Equipe. Nel giugno del 1985 era finito sotto i ferri del professor Saillant, a Parigi, per risolvere chirurgicamente i problemi al tendine d’Achille dovuti a un’infiammazione della guaina tendinea. Doveva essere cosa di pochi mesi, gli ci vollero quasi tre anni per ritornare a essere protagonista nelle corse a tappe. “In questi anni qualche buon risultato l’ho ottenuto, ma quando arrivava il momento di un grande giro le magagne saltavano fuori e non riuscivo a competere davvero”.
Anni dopo, nel 2000, Fignon ricordando quel periodo raccontò a France Tv che “nel ciclismo c’è solo una cosa di essenziale: sapersi ascoltare. Per anni non volli ascoltarmi, perché se mi fossi ascoltato veramente avrei capito che dovevo staccare un attimo”. E quando hai vinto vorresti continuare a farlo, “non puoi aspettare, sai che è nelle tue corde e non riesci a digerire il fatto di non essere più davanti a tutti”. E per tornare a vincere Fignon si rese conto di dover cambiare quello che era abituato a fare. “Nel 1988 passai parte dell’inverno in un velodromo. Non mi succedeva da quando ero ragazzino, ma avevo bisogno di cambiare, di ritrovare le sensazioni di un tempo, di quando mi divertivo come un matto a correre”. Fece pure qualche gara: non ne vinse nessuna, “ma quel ritorno alla pista fu per me una sorta di rinascita”.
Fabio Aru inconsapevolmente ha provato a seguire l’esempio di Laurent Fignon. La pista l’ha sostituita con l’erba e il fango. Questione di ricordi. In Sardegna iniziò a pedalare con la mountain bike prima di cimentarsi nel ciclocross. E al ciclocross è tornato quest’inverno. Qualche gara, qualche discreto risultato, ma mentre le sue ruote galleggiavano nel fango sul suo volto è riapparso un accenno di sorriso.

“Per me è stato un rinizio, per questo ha un valore speciale. Avevo bisogno di ritrovare l’ambiente familiare del cross con chi mi ha lanciato nel ciclocross. Mi hanno aiutato in tanti. Sono contento e fiducioso. Sono venuto in queste gare senza velleità di risultati, volevo riattaccare il numerino sulla schiena”, ha detto.
Stefano Boggia su Cyclinginside ha analizzato le prime uscite del sardo: “Nel valutare il suo stato di forma dobbiamo tenere in mente alcuni fattori fondamentali. Il primo sono le caratteristiche fisiche del corridore. Se per un corridore esplosivo come Van der Poel o come Van Aert il ciclocross può essere pane per i suoi denti, per uno scalatore come Aru la disciplina può essere ostica. Al di là dell’aspetto tecnico della guida, il cross richiede forza fisica, capacità repentina di cambiare ritmo, ‘elasticità del motore’, ovvero il saper esprimere potenza sia a 60 pedalate al minuto sia a 100. Tutte caratteristiche che fanno a pugni con l’attitudine di uno scalatore, abituato a salite da 20 km, ad allenarsi col misuratore di potenza, a mantenere un ritmo di pedalata ideale per ore. A questo si aggiunge che le gare in Italia sono spesso strette e ostiche rispetto ai percorsi più lineari del Nord Europa. Uno stradista in Italia ha più difficoltà ad adattarsi ai percorsi da cross. Però diciamocelo: il livello non è sicuramente da paragonare a quello del Belgio. È abbastanza chiaro che un piazzamento nei 10 in una gara in Italia equivale ad essere doppiati a metà prova in una gara di Coppa del Mondo“.
Dubbi legittimi, ma quello che sembra essere cambiato in Aru è la voglia di mettersi davvero in discussione.
Il prossimo 3 luglio il sardo compirà 31 anni, non troppi per tornare protagonista. Li compirà con addosso una nuova maglia, quella del Team Qhubeka ASSOS. Una nuova squadra, un nuovo ambiente, la cosa migliore per lasciarsi alle spalle l’incancrenimento dei rapporti con l’UAE Team Emirates.