Il Paradiso è una montagna piovosa. Les Deux Alpes di Marco Pantani

Il Paradiso è una montagna piovosa. Les Deux Alpes di Marco Pantani

27/07/2021 2 Di Giovanni Battistuzzi

L’estate s’era fatta autunno quel 27 luglio del 1998. E mica solo per quella pioggia che sembrava non poter finire. Sembrava che tutto dovesse crollare da un momento all’altro. I dubbi, le inchieste, le (più che) ombre del doping, sembravano un burrone affamato di ogni cosa, capace di inghiottire tutto. Le foglie cadevano dagli alberi fuori stagione, come fosse anticipazione di sventura, quasi un monito di quello che poteva accadere.

L’addio della Festina, le accuse e le paure, l’onta di una bugia che tutti sapeva che non era tale, ma che tale appariva, il filo che teneva in piedi tutto sempre più sottile, sempre più sfilacciato e che vacillava nel vento delle Alpi, steso sulla cima di monti millenari, a oltre duemila metri d’altezza.

Quel giorno tutto quello che era capitato non contava nulla. Il presente era un Tour de France duro più per la testa che per le gambe e i nuvoloni neri gonfi di accuse che avevano aleggiato sui corridori dalla partenza di Dublino, si erano materializzati all’alba gonfi di pioggia e di freddo anche sulla corsa. Marco Pantani li guardava e pensava che in cima al Col du Galibier avrebbe trovato un inferno di pioggia mentre avrebbe voluto un paradiso di luce come sfondo alle sue pedalate.

Quando l’enorme è alle porte, è necessario farsi piccoli per diventare grandi, giganti. E così Marco Pantani non poté fare diversamente che farsi piccolo. Non si può ingannare i monti, nessuno è mai riuscito a farlo. Si può soltanto rimandare il momento della verità.

Pantani sapeva tutto ciò, sapeva soprattutto che quello era il giorno giusto per prendere tutto o perdere ogni cosa. Serviva cogliere l’attimo, sperare che l’ardore e l’azzardo potessero essere sufficienti. Si mise in coda al gruppo ad attendere il momento giusto. Ci rimase anche quando Luc Leblanc provò l’evasione e Jan Ullrich gli si mise lesto a ruota per sottolineare il suo ruolo di carceriere, di padrone in giallo. Marco tremò il giusto, guardò il Galibier restò intrappolato tra le nuvole, si tenne addosso i manicotti e la bandana, ché è meglio non sfidare troppo il gigante, non farlo arrabbiare con la propria spavalderia. Poi si alzò sui pedali. Scattò. Mancavano quattro chilometri e mezzo alla cima, quarantasette all’arrivo.

Lassù, a oltre duemila metri, dentro un freddo infame, fradicio di pioggia, Pantani decise che la montagna era essa stessa cielo e che pedalare non era diverso dal volare.

Iniziò a danzare in quel suo ballo di denti stretti, sguardi ascetici, sella abbandonata a se stessa e vuoto alle spalle. Pantani si librò attaccato al sogno di una rivoluzione che sperava potesse andare a buon fine, senza alcuna sicurezza che potesse andare davvero così. Si scrollò di dosso la paura, il timore della reazione, si scrollò di ruota la pesantezza di quella figura enorme, gialla. Si girò e non vide Ullrich. Si girò e non vide nessuno. Iniziò a credere che l’impossibile lo si potesse rendere possibile se alle gambe si univa la fantasia.

Ai 2.645 metri del Galibier passò per primo. Aveva ripreso tutti gli avanguardisti della mattina. Sapeva che però tutto ciò non poteva bastare. Serviva altro.

In cima al tetto del Tour de France lo aspettava Orlando Maini, una mantellina per ripararsi da pioggia e freddo. Pantani provò a indossarla, ma il vento era tanto e le mani deboli di fatica. Decise di fermarsi, perché i giganti non vanno sfidati troppo, perché il tempo delle imprese non sempre è incalzante e ogni tanto una pausa scenica ci vuole. Racconterà Maini che “quando l’ho visto sbucare ad un certo punto ho pensato di non riuscire a passargli la mantellina perché ero forse più stanco io di lui”. Perché Marco “stava facendo una cosa molto grande, una cosa molto importante. Passargli la mantellina per me è aver toccato il cielo con un dito, perché ero riuscito a fare tutto ciò che volevamo e soprattutto lui era da solo”.

Pantani riprese a pedalare, in discesa planò verso valle e da lì ascese. Verso Les Deux Alpes, verso l’arrivo, verso il cielo del Tour, verso la storia del ciclismo. Pantani mangiò asfalto curve e tornanti, divorò lo spazio che lo separava dall’arrivo, continuò ad arrembare. Perché non bastava quello che era stato fatto, serviva guadagnare il guadagnabile. Perché ogni secondo guadagnato su Ullrich era un sospiro in più, era un battito di cuore in meno, una gioia maggiore. Era soprattutto la dimostrazione che il ciclismo era ancora uno sport ascensionale.

E così Pantani smise di farsi piccolo, divenne un gigante. E così spinse sulle pedivelle fino all’ultimo metro. Poi si sedette sulla sella. Chiuse gli occhi. Si godette la consapevolezza che è tutto vero.

Ci vorrà un minuto e cinquantaquattro secondi prima di vedere arrivare Rodolfo Massi, secondo. Cinque minuti e quarantatré secondi prima di vedere arrivare Bobby Julich, quinto, primo del fu gruppo dei migliori. Otto minuti e cinquantasette secondi prima di vedere arrivare Jan Ullrich, venticinquesimo, stremato, sconfitto.

C’est un geant. Titoleranno i francesi.