Il Tour du Rwanda è una passione irrefrenabile

Il Tour du Rwanda è una passione irrefrenabile

24/02/2023 0 Di Giovanni Battistuzzi

Laggiù in Rwanda tutto cambiò nel 2014, quando il ruandese Valens Ndayisenga riuscì ad avere la meglio del connazione Jean Bosco Nsengimana dopo sette giorni di corse e di rincorse, in quella che fu una delle edizioni più combattute del Tour du Rwanda. Da allora il ciclismo divenne lo sport nazionale, il più seguito, il più amato. Da allora ogni occasione è buona per mettersi a bordo strada per vedere i corridori passare.

Laggiù in Rwanda, tutto era cambiato però già otto anni prima, nel 2006, quando Jonathan Boyer, il primo corridore americano a prendere parte al Tour de France (era il 1981), scelse Musanze, città nell’ovest del paese, per ripartire dopo essere stato condannato per violenza sessuale su una minorenne. Boyer cercò di redimersi lontano dagli Stati Uniti, in Rwanda si diede da fare per portare bici e attrezzature, per dare una mano e mettere più gente possibile in bicicletta. Nel 2007 venne creato il Team Rwanda, una sorta di Nazionale a pedali: i migliori corridori venivano ingaggiati, a loro veniva data una bicicletta, vitto, alloggio, un lavoro, la possibilità di allenarsi e di sognare in grande. Adrien Niyonshuti, crebbe nel Team Rwanda, nel 2012, a Londra, fu il primo ruandese a correre la gara ciclistica dei Giochi Olimpici: quella del cross-country mountain bike. A Rio corse anche la gara su strada. Nel 2009 fu il primo corridore ruandese a correre in Europa, al Tour of Ireland.

Laggiù in Rwanda tanto sta cambiando ancora. Il paese sta superando, non dimenticando, l’orrendo massacro del 1994 quando tra aprile e luglio vennero ammazzati a colpi di armi da fuoco, machete e bastoni chiodati quasi un milione di persone. La colpa? Essere di etnia Tutsi o non odiare questi. I problemi ci sono ancora, ma c’è ottimismo: il ministro delle finanze Uzziel Ndagijimana ha dichiarato che l’economia dovrebbe crescere del 6,2 per cento nel 2023 e di circa il 7,5 nel 2024 e nel 2025. Anche perché lo stato sta puntando sull’innovazione tecnologica e tutto questo sta dando i suoi effetti: il Global Innovation Index ha inserito il Rwanda tra i paesi a basso reddito con i maggiori benefici dell’innovazione nella crescita. La povertà assoluta è meno di un tempo, la speranza di un futuro migliore maggiore.

Una speranza che pedala parecchio. La bicicletta infatti è uno dei motori trainanti dell’economia di alcune zone del paese. Il turismo in bicicletta continua a aumentare e fa dà lavoro a sempre più persone. E anche qui la tecnologia c’entra. Il Rwanda è pronto a lanciare i primi modelli di ebike fatte nel paese e piccole start-up stanno portando avanti progetti per la migliorare la ciclabilità del paese e renderlo ancor più appetibile per il cicloturismo: nel nord-ovest del paese i cicloturisti sono cresciuti del 250 per cento negli ultimi cinque anni e in totale il settore porta benefici per circa 750 milioni di dollari all’economia ruandese.

Certo i problemi non mancano. Al confine con la Repubblica democratica del Congo si spara e si muore ancora, di gruppi armati ce ne sono ancora e ogni tanto si parla di rischio di colpo di stato.

Problemi che per una settimana l’anno però vengono messi in secondo piano. Perché per una settimana l’anno c’è il Tour du Rwanda e tutto ruota attorno al Tour du Rwanda, perché c’è nulla di meglio.

Il Tour du Rwanda è stato corso per la prima volta nel 1988, tra il 1991 e il 2000 saltò, ritornò sulle strade ruandesi nel 2001 e da allora, piano piano, divenne prima la corsa più importante del paese, poi l’evento più seguito del paese, infine la corsa più importante del continente africano, una sorta di Tour de France d’Africa. La corsa ha ottenuto la licenza Uci nel 2009 e da allora è corsa anche da squadre europee di prima fascia che si sommano alle formazioni locali e alle più importanti Nazionali ciclistiche africane.

Quest’anno tra i 93 corridori al via c’era anche Chris Froome. Era da anni che il keniano d’Inghilterra voleva correre in Rwanda, c’è arrivato a fine carriera. Prima aveva contribuito al progetto Racing for change portato avanti dalla sua squadra, l’Israel-Premier Tech, che ha aperto un centro di formazione a Bugesera, nella parte orientale del paese, per giovani ciclisti e cicliste. Il progetto ha creato infatti la prima squadra femminile del paese, ha aperto scuole e centri anti violenza e cerca di portare avanti campagne di sensibilizzazione per la parità dei sessi.

“Progetti come questo contribuiranno notevolmente a portare la prossima generazione di ciclisti professionisti in Europa. Quando sono cresciuto in Kenya, non avevamo niente del genere. Quindi, è fantastico vedere questo prendere forma e credo che nel prossimo decennio vedremo i frutti di questo progetto”, ha detto in un’intervista ad Africa News.

All’Equipe, prima del via del Tour du Rwanda, Froome ha raccontato i primi giorni nel paese e quell’incredibile passione attorno a lui, ai corridori, alla corsa: “Non so cosa significo per loro. Penso di non essere solo quello che ha vinto quattro Tour de France. Mi vedono come un fratello maggiore, in Africa dicono questo spesso. Certo è che mi fanno tante domande, tutti vogliono sapere come possono avere successo nel ciclismo. Non è facile per me dare loro la risposta giusta, non c’è un solo modo per avere successo, quello che faccio è dire loro che serve tenere a mente che tutto è possibile se lo si vuole davvero”. C’è però una cosa che Froome ha voluto sottolineare: “A volte si paragona la mia esperienza con la loro, ma non è così. Per me è stato tutto molto più semplice perché avevo un passaporto britannico. Il percorso per loro sarà purtroppo più lungo, con più insidie”. Per questo Froome dice che “il vero modello per loro non devo essere io, dev’essere Biniam Girmay o Daniel Teklehaimanot”. Il primo ha vinto la Gent-Wevelgem lo scorso anno, il secondo è stato il primo corridore nero ad aver completato il Tour de France nel 2015.

Chris Froome al Tour du Rwanda non c’è venuto per fare il turista. Nel corso della quinta tappa ha provato l’attacco da lontano, ha tentato di riproporre il numero che gli era uscito al Giro d’Italia del 2019. Gli è andata male anche per qualche problema meccanico di troppo.

Poco male. Resterà il lavoro fatto. Ed è un lavoro importante “nella corsa forse più allenante alla quale abbia mai partecipato”, disse nel 2021 Pierre Rolland. Si corre d’altra parte spesso oltre i 2.000 metri d’altitudine, si affrontano lunghe salite ad alta velocità.

L’occasione giusta soprattutto per correre una corsa che è soprattutto un salto in un mondo che non c’è più, quello nel quale il ciclismo era lo sport più popolare e tanto (ma tanto davvero) girava attorno alle biciclette dei corridori. Il Rwanda assomiglia all’Italia che impazziva per Fausto Coppi e Gino Bartali. Perché l’amore del Rwanda per la bicicletta è ancora totale, assoluto, calorosissimo.