
L’uomo che provò a vincere la Liegi rimanendo a Liegi
24/04/2021Nel suo quartiere per mesi e mesi non parlarono d’altro. Il nome di Léon Houa era diventato sinonimo di mito, di dio e sulla sua forza e sulla sua resistenza ormai le leggende si sprecavano. C’era addirittura chi aveva sostenuto che su di un velocipide avrebbe potuto fare il giro del mondo e metterci meno di quei 80 giorni che era diventati limite di impresa per quel libro che ancora si leggeva parecchio, quello di Jules Verne.
Lui quel Léon lo conosceva bene, talmente bene che gli giravano parecchio a sentire tutte quelle moine sul suo conto.
Avevano a lungo abitato a poche centinaia di metri di distanza, avevano giocato a lungo insieme, avevano frequentato la stessa scuola, lui di più, Léon molto meno. Soprattutto avevano corso le stesse campestri e il “grande” Léon non gli era finito mai davanti. Era difficile che potesse accadere visto che lui ne aveva perse solo un paio, le altre le aveva non solo vinte, spesso stravinte. Di una cosa era certo: Léon, competitivo com’era, aveva scelto la bicicletta perché era certo che non sarebbe mai riuscito a batterlo. E ci sapeva andare pure bene sui pedali, ammise, in un momento di evidente smarrimento. Si ripigliò subito: però che ci vuole a pedalare duecentocinquanta chilometri, una baggianata per uno che era abituato a correre anche cinquanta o sessanta chilometri per campi.
Decise che gliela avrebbe fatta vedere lui a quell’arricchitello pallone gonfiato, che voleva pure farsi pagare per correre. Lo sport mica era cosa per parvenu, gente che nulla sapeva fare se non muovere i pedali. Farsi pagare, voler fare lo sportivo per professione. Che idiozia. Sputò in terra. Poi salì sulla sua bicicletta nuova di pallino. Mancavano sei mesi alla seconda edizione della Liegi-Bastogne-Liegi, un tempo sufficiente per prepararsi al meglio per fargliela vedere a Léon Houa, dimostrargli come anche in bicicletta lui, Antoine d’Ursel, gli sarebbe stato superiore come superiore si era sempre dimostrato. Questione di rango sociale, di origini e le sue erano antichissime. Certo di un ramo un po’ minore della famiglia, non proprio di quello del duca Charles-Joseph, ma comunque antichissime. Era o non era lo sport un passatempo per signori per bene?
Dopo tre mesi di allenamenti massacranti Antoine si testò nelle prime gare. Ma non andarono come avrebbe voluto. I soliti problemi dei primi tempi, pensò. E così ci diede dentro negli allenamenti e ancor di più di prima. Ma anche all’ultima corsa, ad appena due settimane dalla Liegi, finì ben lontano dai primi.
Iniziò a preoccuparsi. Aveva detto a mezza città che avrebbe stracciato il loro eroe, che figura c’avrebbe fatto con tutti se fosse arrivato a qualche ora da Houa? Poteva prendere più stimolanti, ma già una volta esagerò e a stento riuscì a coprire gli ultimi venti chilometri che lo separavano da casa quando gli si appiccicò addosso di botto tutta la stanchezza che non aveva sentito nelle centinaia di chilometri precedenti.
Fu allora che gli vennero in mente qualche riga di un libro che aveva finito di leggere da pochi mesi: “Ogni giorno continuavo ad avvicinarmi sempre più alla verità: l’uomo non è autenticamente uno, ma è autenticamente due”. L’aveva trovato interessante quel Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde e decise che in effetti il dottor Jekyll non aveva tutti i torti. E che avrebbe potuto dimostrare a tutti la grande verità dietro quella frase e al contempo a tutta Liegi la normalità di quel Léon Houa, quello che gli finiva sempre dietro alle corse campestri.
Antoine d’Ursel si presentò puntuale al via della seconda edizione della Liegi-Bastogne-Liegi. Erano le cinque del mattino del 28 maggio dell’anno del Signore 1893. Salutò con il solito cordiale disprezzo Léon Houa e gli disse che l’avrebbe atteso al traguardo con un coppa di champagne per brindare ai vecchi tempi. In molti risero di quel buffo uomo coi baffi a manubrio e il basco in testa, vestito di tutto punto con una camicetta gialla di fresco di lana che era più adatta a una passeggiata per Bruxelles che a una gara velocipedistica.
Antoine d’Ursel partì a tutta forza, in pochi chilometri lasciò tutti i suoi compagni d’avventura e rimase solo. Poteva mica durare a quel ritmo. Dopo novanta chilometri, passato il primo punto firma, girò a destra dietro una siepe invece di svoltare a sinistra. Lì trovò il suo primo staffettista, vestito ovviamente come lui, con gli stessi baffi e lo stesso basco che si era fatto confezionare in tre modelli dal miglior cappellaio di Liegi. Gli ripetè i dettagli del piano e gli disse di ricordare all’altro uomo il punto esatto per l’ultimo cambio.
Si fece portare dal suo autista con la carrozza a motore sino alla casa di campagna fuori Liegi. Si bevve un paio di caffé, si concedette qualche ora di sonno, si fumò un sigaro e con tutta calma si fece trovare al punto stabilito. Il secondo staffettista arrivò che già quattro corridori erano passati. Non male pensò. Rilassato e fresco com’era non avrebbe avuto problemi a recuperarli.
Si mise a pedalare. Gli ci vollero pochi chilometri per riprendere Richard Fischer, una decina per piombare su Charles Collette e Michael Borisowski. Quasi una ventina per raggiungere e supere Léon Houa, che incredulo iniziò a inveire contro quel pallone gonfiato che lo batteva sempre quando erano piccoli.
Sulle ultime alture prima di Liegi però Antoine d’Ursel iniziò a fare più fatica del solito. Si sentì d’un tratto le gambe stanche e una spossatezza enorme. Gli ci volle poco a capire di aver ancora una volta fatto male i conti con gli stimolanti. Vedendolo arrancare Léon Houa accelerò, lo raggiunse che mancavano meno di cinque chilometri al traguardo e lo staccò. Sotto lo striscione d’arrivo lo precedette di oltre un quarto d’ora.
Antoine d’Ursel arrivò sfinito, desideroso soltanto di qualcosa da bere. Lo fecero sedere su di una sedia, gli portarono un cognac, si complimentarono con lui per la gran prova. Non aveva vinto, ma aveva dato grandi preoccupazioni al campione. Tutto sommato era andata bene, si disse.
Si stava riprendendo dal calo di forze quando un uomo con i baffi alla Cecco Beppe, un ciccione dal viso arcigno e dai lineamenti dell’est iniziò a fissarlo quasi a volergli attraversare il corpo per leggergli l’anima. Antoine d’Ursel all’iniziò pensò a qualche suo ammiratore, poi si impaurì al pensiero che potesse essere un padre di una delle ragazze che aveva sedotto e abbandonato negli ultimi anni. Quasi ebbe la voglia di scappare, ma c’era da aspettare la premiazione.
A quella premiazione però Antoine d’Ursel non partecipò. L’uomo uomo con i baffi alla Cecco Beppe, il ciccione dal viso arcigno e dai lineamenti dell’est era il giudice di gara di metà percorso, quello che timbrò il foglio di corsa del numero 35 che portava evidenti i segni di una scivolata sul lato sinistro del corpo. Segni che sul numero 35 all’arrivo non c’erano.
Antoine d’Ursel fu smascherato e trattato con infamia per anni. Nel 1896 parì per l’America e lì rimase per tutta la vita. Divenne un imprenditore di successo e fu uno dei primi importatori degli Stati Uniti di biciclette europee.
Quanto narrato qui sopra è una rielaborazione romanzata di un fatto realmente accaduto. La notizia della truffa ebbe una certa eco nei giorni seguenti la corsa alla corsa sulla stampa locale. Venne ripresa anni dopo, nel gennaio del 1931, quando lo Standaard diede conto della morte a New York di Antoine d’Ursel in un articolo titolato “Addio all’uomo che tentò di truffare la Liegi”.