
Le biciclette di Yuri Gagarin
12/04/2021Sessant’anni fa Yuri Gagarin fu il primo uomo ad andare nello Spazio. Un altro Yuri invece il suo Cosmo lo costruì tra telai e pignoni, mozzi e selle
Yuri si chiamava così perché non poteva chiamarsi altrimenti. E non poteva chiamarsi altrimenti perché era figlio di Galileo, uomo rude di campagna ma che più che ai campi guardava al cielo, alle stelle. E quando guardava all’insù e si perdeva a osservare l’infinito sognava in cuor suo che nello Spazio un giorno ci potesse finire quel figlio che era nato nei giorni nei quali il socialismo divenne intergalattico.
A Yuri però del Cosmo gliene era sempre fregato il giusto, mica si possono fregare generazioni di geni terrestri, minerali, attaccati ad aratri, trattori, viti e ortaggi. C’aveva provato suo padre a parlargli della magia di quello spazio infinito abitato soltanto da un incredibile silenzio, nel quale erano sparse qua e là enormi biglie che gravitavano attorno al sole in un movimento perfetto e impercettibile. Ma Yuri le biglie le conosceva e ci vedeva dentro solo i corridori, quelli di cui leggeva le gesta sulle pagine rosa di quel giornale che suo padre non comprava mai, quelli che andava a vedere ogni volta che poteva, anche a costo di scappare da casa uscendo dalla finestra. La gravità per lui era dinamica, quella che sfidava pedalando, le distanze erano segnate dai chilometri, mica dagli anni luce, e l’avventura non era lasciare la Terra, ma muoversi sulla Terra, salendo e discendendo colline, attraversando pianure, sognando prima o poi di raggiungere le montagne che vedeva all’orizzonte dalla sua cameretta.
Suo padre gli aveva raccontato un sacco di volte di Yuri Gagarin, dell’uomo che portava il suo nome che un giorno aveva sfidato tutti pur di avvicinarsi alle stelle. Aveva fantasticato più e più volte dell’esistenza di pianeti magnifici che ancora non si potevano neppure immaginare, di altre forme di vita incredibili e imbattibili. E lui gli aveva chiesto: tipo Eddy Merckx?
Suo padre aveva scosso la testa e aveva capito di aver sbagliato tutto, che quel suo figlio che era nato nei giorni nei quali il socialismo divenne intergalattico non sarebbe mai stato come lui. Decise che non di un cannocchiale aveva bisogno, ma di una badilata in testa. Era pur sempre figlio suo però e una badilata in testa non era forse il mezzo migliore per fargli cambiare idea sul mondo. Il giorno dopo tornò dalla città con una vecchia bicicletta che chissà dove aveva trovato. Ma era rossa e questo bastava. Gli disse che per pedalare non bastava muovere le gambe, ma sapere anche come si muoveva ciò che muovevano le gambe. E così si misero a sistemarla assieme, che quel suo figlio degenere almeno imparasse la meccanica di una bicicletta visto che non avrebbe mai imparato la meccanica celeste.
Yuri iniziò a pedalare sulla sua bici rossa, con una falce e martello disegnata in giallo sul tubo orizzontale del telaio una settimana dopo quel giorno. Il suo Spazio lo iniziò a conquistare nelle colline attorno a casa, poi in quelle della provincia e della regione, infine provò a raggiungere quelle italiane.
Andava forte Yuri, ma trovava sempre qualcuno che andava più forte di lui. E il ciclismo non è mica come lo Spazio dove basta arrivare, serve arrivare primo. Il ciclismo lo lasciò, le biciclette no. Perché su di una cosa aveva ragione suo padre. Per pedalare non bastava muovere i pedali, ma serviva sapere anche come si muoveva ciò che muovevano le gambe. E lui l’aveva imparato a meraviglia, quei nove tubi d’acciaio erano un Cosmo del quale conosceva tutto sino all’ultima vite. Si trovò un posto da garzone in una officina, affinò la tecnica, quando si sentì pronto si mise in proprio. Quattro mura piene di palmer raggi tubi pedali pattini per freni e attrezzi, tutti messi alla rinfusa in un disordine ordinatissimo nel quale lui sapeva trovare tutto.
L’universo che gli aveva insegnato suo padre lo trovò nel mese di maggio di qualche anno dopo quando un signore secco con pochi capelli gli fece la proposta che non si poteva rifiutare: “Le va di venire al Giro d’Italia?”. Nemmeno il tempo di finire la domanda e uscì un sì deciso, convinto. E così i suoi maggio si trasformarono in un viaggio interstellare lungo la penisola al fianco di campioni che sino ad allora aveva visto solo sui giornali, alla televisione e sui muri della sua ciclofficina.
Yuri che al paese era per tutti Gagarin o il rosso, questo sì l’aveva preso dal babbo, tornò a essere Yuri e basta. Aveva trovato il suo Spazio, il suo cosmodromo. La sua navicella era un furgone pieno di attrezzi e minuteria metallica. Durò tre anni il suo viaggio nell’universo ciclistico. Poi basta, perché un sogno merita di essere vissuto soltanto per un attimo, la sua vita erano le biciclette, ma quelle che venivano vissute tutti i giorni, quelle popolane dove ci si doveva ingegnare a trovare soluzioni.
Yuri di soluzioni semplici a problemi complessi se ne è inventati parecchi, c’ha dedicato un’intera vita. L’unica soluzione semplice a un problema complesso non è riuscita a inventarsela ieri quando il suo cuore ha deciso di fargli uno scherzo, il primo, il peggiore. Aveva tenuto da parte due bottiglie di quelle buone per festeggiare i suoi due compleanni, il suo e quello della conquista dello Spazio di quell’altro Yuri, quel Gagarin di cui gli era toccato in sorte il nome.
Ciao Yuri.
[…] Un’affascinazione che segnò in buona parte l’immaginario del cantautore britannico, perché “sono comunque figlio di un mondo che guardava al di là dell’atmosfera, osservava le stelle e i pianeti senza più chiedersi chissà cosa sono ma chiedendosi chissà quand…“. […]