
L’esplorazione del ciclismo di Pierre Rolland
14/12/2022Poteva continuare, lo avevano cercato, provato a convincere di continuare, di rimanere in gruppo. Era arrivata pure qualche offerta interessante. Non abbastanza però, perché arrivati a trentasei anni, non troppi in realtà, uno come lui poteva, voleva, andare avanti solo se gli fosse stata garantita la possibilità di correre a modo suo, l’unico che gli dà soddisfazione. Probabilmente nessuna squadra glielo aveva potuto garantire e così poco male, forse, ci si saluta con un è stato bello, ma è finita. “Ho consigliato a quelle squadre che mi avevano contattato di puntare su un collega più giovane invece di cercarmi una sistemazione a tutti i costi”.
Pierre Rolland ha deciso che è venuto il momento di smettere di fare il corridore professionista. La sua squadra, la B&B Hotels, che fu Vital Concept, quella che l’aveva accolto nel 2019, non era riuscita a trovare uno sponsor abbastanza munifico per poter continuare. Fine della corsa per lui e ventisei compagni. Qualcuno aveva già deciso di ritirarsi (Jonathan Hivert e Cyril Lemoine), qualcun altro aveva trovato già una sistemazione (Victor Koretzky alla Bora, Quentin Jauregui alla Dunkerque Grand Littoral), Luca Mozzato si è accasato al Team Arkéa. Gli altri sono in cerca di una destinazione diversa dalla fine della carriera.
Pierre Rolland ha provato a lasciare loro una porta aperta. Difficile possa essere utile, ma tant’è, c’ha quantomeno provato suo malgrado. “Grazie di tutto! Speravo che questa mia avventura potesse continuare ancora per un po’, ma il destino ha deciso diversamente. Ora inizia un nuovo capitolo della mia vita e davanti a me ho tanti grandi progetti. E posso dire di essere contento della mia carriera professionistica”.
Può essere davvero contento della sua carriera professionistica Pierre Rolland e non tanto per le vittorie ottenute, quattordici (due al Tour de France e una al Giro d’Italia, l’ultima al Tour du Rwanda) e nemmeno per il quarto posto al Giro del 2014 o l’ottavo al Tour del 2012. C’entrano niente certi dettagli del genere con uno come Pierre Rolland. È altro a contare, perché la dimensione di Pierre Rolland nel ciclismo non si è mai misurata in vittorie, ma in chilometri, davanti a tutti, e insistenza: quella di cercare sempre e comunque la via della fuga, che non era mai la via di fuga per qualcosa, ma l’unica via possibile per esplorare il ciclismo.
C’è chi l’avanguardia del gruppo la cerca per ambizione, chi per rimedio (a obbiettivi sfumati), chi per vetrina. Poi c’è chi la cerca, la trova, perché è quella l’unica forma di ciclismo possibile. Un modo di correre, quello di Pierre Rolland, che non è cambiato nella mutazione generale di questo sport, che è rimasto intatto, uguale a se stesso, come è sempre stato uguale a se stesso quello dei fuggitivi. Scappare dal gruppo e poi via a pedalare e a credere che possa arrivare un mai abbastanza probabile vento sulla schiena o una distrazione, un addormentamento, uno sbaglio di calcoli degli inseguitori.
È un ciclismo, quello di Rolland, e dei Rolland che lo hanno preceduto e che lo seguiranno, che vive e prospera nell’incertezza, nella convinzione che nulla è davvero deciso e che mai bisogna cullarsi in nella speranza di un aiuto di qualcuno. Serve fare da sé, serve essere dei duri a morire, evitare di trovare scuse. È introspezione la fuga, capacità di adattarsi a quello che c’è, essere consapevoli che magari andrà male cento e cento volte, magari sempre, ma quella volta in cui va bene è libidine pazzesca, un’evasione da Alcatraz.