
Perché Marco Pantani era il ciclismo
13/01/2017Sarà stato per quel giorno, 13, che per tanti vuol dire sfiga, in questo caso nascita. Oppure quell’altro, che piace di più, 14, che almeno una volta all’anno vuol dire amore, ma in questo caso addio. Sarà che forse in questa storia tutto è capovolto, sottosopra, nel senso del senso di tutto, nel senso soprattutto fisico e di percorso. Perché con lui, tutto era il contrario di quello che ci si poteva aspettare, tutto prendeva una direzione inconsueta, imprevedibile, inimmaginabile.
Per Marco Pantani era così. Per chi era a bordo strada pure. Lui correva e gli altri lo aspettavano, attendevano il suo passaggio, ed era sempre visione, sorpesa. Fu un’epifania all’inizio, quando la salita, una nemmeno troppo percorsa, sedotta e abbandonata più volte, palesò le sue forme esili, il suo andare vorticoso, sui pedali, inconfondibile. E fu rivelazione, perché la grazia che molte volte contraddistingue i campioni in lui si confondeva in altro. E più degli occhi, confortava il cuore. Non era bellezza, non solo almeno, era sentimento, qualcosa che prendeva e rapiva. Quella salita era il Passo di Giovo e quel giorno era il 4 giugno, era la quattordicesima tappa Lienz-Merano, 234 chilometri. E non sarebbe stato un giorno qualsiasi.
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Scalando quel passo Pantani iniziò a sgrezzare i contorni della sua statua. Quella che i ciclismo ancora sa offrire ai suoi eroi e molto spesso ai suoi martiri di quella strana fede che lega paganamente l’uomo alla bicicletta, la bicicletta ai suoi simulacri.
Scalando quel passo e poi il Mortirolo e il Santa Cristina il giorno dopo, e il Fedaia e Plan di Montecampione e il Gran Sasso e Oropa e il Galibier e il Ventoux e il Colle dell’Agnello più avanti, e tante altre cime, quel ragazzo smilzo con pochi capelli e gli occhi persi, quasi inadeguati al mondo, divenne Marco Pantani, con tutto l’eccezionalità che essere Marco Pantani portava con se.
All’insù come meta, come diktat, come missione. La salita come obbligo, come esaltazione, come libidine. Ridurre la sofferenza, aumentarla agli altri. E via un levitare ancorato all’asfalto, una danza in piedi sulla bicicletta, le mani che stringevano il manubrio e le gambe stese, a infliggere ai pedali la massima potenza possibile e agli altri coltellate nei polpacci e nelle cosce, calore nei polmoni, assenza di fiato. La stessa che sui tornanti prendeva avventurosi montanari e colorati che osservavano urlando il suo nome l’arrembaggio dell’Elefantino che divenne Pirata e poi Pantadattilo, almeno per Mura.
Ma quel salire ha avuto sempre un contrappasso. Discesa certo, ma violenta, crudele. Uno scendere che voleva dire cadere e infrangere. Sbeffeggiare. Proprio lui che quando la strada sale si esaltava e quando la strada scendeva pure. Che era ascendente e discendente allo stesso modo. Ma il ciclismo è fatto di forza, di talento e di caso. Perché una macchina che ti viene incontro e ti disarciona, una che non rispetta uno stop e fa lo stesso, un gatto che attraversa la strada impaurito proprio in quel momento e fa ancora lo stesso non è altro che questo. Pantani volava, poi si trovava gettato a terra. Ricorsivamente. E’ stato un rincorrere e rincorrersi, senza soluzione di continuità, dove l’unica certezza era che prima o poi si sarebbe librato e prima o poi l’asfalto l’avrebbe richiamato a sè.
In mezzo c’è tutto il resto. E in questo soprattutto c’è tutto il ciclismo che si può trovare altrove. C’è la salita, tanta, c’è azzardo, c’è l’indomabilità, c’è il culto dell’esclusione della via di mezzo, il comandamento dell'”o tutto o salto”. C’è una secolo di storia, c’è Binda, Bartali, Coppi, Gaul, Bahamontes, Ocaña, Fuente, Hinault, ci sono libri di imprese talmente diverse da risultare simili.
Pantani era modernissimo, è stato quello che il ciclismo cercava, luce in un momento di cambiamento, di trasformazione e modernizzazione, di buio forse, diventato ancora più cupo poco dopo. Era al contempo antico, per modi, per sentimento, per come pedalava e intendeva la gara, l’allenamento, il ciclismo. Era retrovia quando serviva, avanguardia quando la strada saliva. Era testa e fuga, del gruppo quando la corsa esplodeva, dal mondo. Il suo era rinchiudersi nella sofferenza degli scalatori, nel loro modo unico e martirizzante di affrontare le ascese. Divenne anche prigione per tutto il resto.
Pantani fu. E questo è il punto e il peccato. Ma fu eccelso rappresentante di una categoria di mondo che ha nel ciclismo il suo sport e nell’amore il suo sentimento. Quel manipolo di uomini a pedali che non si esauriscono in calcoli di watt e vam, di piani di allenamento e di razionalizzazione di sforzi e gare.
Pantani fu. E qui, per chi è rimasto, è ogni giorno un pensiero altrove. Un vagare tra quello che sarebbe stato, ma non potrà mai più essere