Il posto di Marco Pantani nelle estati bambine

Il posto di Marco Pantani nelle estati bambine

13/01/2021 0 Di Giovanni Battistuzzi

Rimangono le immagini, forse coi contorni un po’ sfumati ma non ancora sfocati, ravvivati di tanto in tanto da video trovati qua e là su social e YouTube. E nel rivedere tutto ciò ne riemergono altre, queste sì già un po’ sfocate. Diapositive del contorno dei giorni di allora, perché il protagonista era altrove, spesso inscatolato in una televisione. A volte, ma solo se si era fortunatissimi, lui era invece un passaggio di pochi secondi in salita. Il tempo giusto per stupirsi di quanto era diverso il suo modo di scalare le montagne rispetto al nostro. Questione di velocità, impossibile da replicare; questione di leggerezza, impossibile da eguagliare; questione di occhi, impossibili da abituare. Ogni scatto era una novità. Ogni alzata sui pedali era una rivelazione, una continua epifania.

Rimangono i ricordi di quelle estati bambine fatte di spiagge rimandate, di pomeriggi appartati e lunghissimi, di partite di pallone spostate, oppure salutate direttamente, ché c’era il Tour prima e poi il Tour da immaginare sui pedali, credersi parte di una storia fantastica. La salita dietro casa che diventava il Galibier, quella un po’ più in là l’Alpe d’Huez giusto perché aveva due tornanti in più. C’era nient’altro, perché quello bastava, avanzava: pure troppo, troppa grazia Sant’Antonio. Chiappucci e Bugno erano un discorso da fratelli maggiori. Moser e Saronni cosa da zii o da cugini già uomini. Gimondi e Merckx, Bartali e Coppi roba da padri e da nonni. Le nostre estati bambine erano consacrate a un nuovo culto, personale, anzi personalissimo, come dev’essere un culto. Non avevamo visto niente di quello che ci veniva raccontato, ma poco ci interessava. Cosa avevamo perso? Non lo sapevamo. L’unica cosa che sapevamo davvero era cosa si stavano perdendo loro a parlare di questo e di quest’altro mentre sugli schermi fluivano le immagini del presente durante quelle estati. Perché per anni quello spettacolo andava in scena solo d’estate. C’era sempre un problema, un contrattempo, una sfiga che lo eliminava dal palinsesto della primavera.

Rimangono gioie e delusioni. Più le prime che le seconde in verità. Minuti persi a cronometro, minuti guadagnati in montagna. Che non sempre si pareggiavano ma tant’è. I secondi erano ben altra cosa dei primi.

Rimangono colori e suoni. Giallo e tre sillabe che ancora si vedono scritte sulle strade del ciclismo.

Rimangono magliette e bandane che escono ancora dagli armadi, che ogni tanto ci troviamo ancora a indossare, un tocco di giallo in movimento. Magliette ancora abbondanti, che nelle estati bambine c’era sempre qualcuno che diceva “prendila di qualche taglia in più che poi cresci”, impossibili da riempiere. Per la bandana non c’era pericolo, la misura era unica. Magliette e bandane che quando le trovi o le ritrovi ci si chiede il perché sono ancora là. E l’unica risposta che si trova, l’unica possibile è che perché lì devono stare.

Rimangono tante cose che troppe non sono mai. Il fatto che si era ciurma di un solo Pirata. Le estati bambine erano un luglio di pomeriggi casalinghi davanti alla tv, una speranza di uno scatto di Marco Pantani che puntualmente arrivava.