
Marco Pantani è un rimpianto maggiorenne
14/02/2022Dicono che con i diciott’anni dovrebbe iniziare la maturità, quell’età nella quale si è pronti ad assumerci le responsabilità del nostro avvenire. Essere insomma pronti a essere artefici di quello che saremo.
Diciott’anni è un passaggio, più burocratico che altro. Da un giorno all’altro non cambia nulla, eppure cambia tutto. Perché le cazzate fatte assumono un altro tono, altre conseguenze e tutto ciò dovrebbe far riflettere, dovrebbe responsabilizzare. La maturità non è altro che questo, avere responsabilità, personale e sociale.
Diciott’anni sono un passaggio anche nei ricordi. Rendono chiaro, lampante, il tempo che passa, quanto ne è passato. E quando i ricordi sono maggiorenni, dovrebbero essere più sfumati, li si dovrebbero sentire distanti, se non lontani quanto meno più leggeri, non più immanenti.
Funziona mica così. Se ne dicono tante e quasi mai ci si azzecca.
Perché sono passati diciott’anni da quando abbiamo appreso della morte di Marco Pantani. E ancora non se va dalla testa quello che si stava facendo e dove si era allora, in quel dannato 14 febbraio, quel San Valentino dell’anno del Signore 2004.

Non se ne va perché non se ne può andare, perché quel giorno l’ultima speranza che avevamo di un ultimo colpo di pedale, di un ultimo scatto in salita si è spento per sempre. Ci avevamo creduto ancora che fosse possibile.
Non funziona sempre così quando la passione sportiva prende la forma dell’adorazione?
Adorazione sì. Perché tutti noi si usciva e si onorava la bicicletta nei suoi santuari, quelle strade in salita che potevano essere anche solo di pochi chilometri, ma che la fantasia le trasformava in Stelvio e Mortirolo, in Fedaia e Montecampione. E quella bici l’avevamo presa o ripresa anche grazie a lui.
È salutare la bicicletta e non solo per il fisico. Soprattutto per la testa. Ti fa pensare a tutto, fa immaginare è un mezzo per provare a costruire una realtà più vicina al nostro sentire.
E il popolo di Marco Pantani – quello che quando usciva in bici aveva qualcosa di giallo, fosse una bandana, una maglia, la bici, un dettaglio – era un popolo di adoratori passato dalle lamentele sulla sfiga, alla gioia più incredibile, quella del Giro e Tour nello stesso anno, quel 1998 indimenticabile, alla più nera disillusione.
Un popolo che si stringeva attorno a uno scricciolo d’uomo che sui pedali si trasformava: era Charlie Parker e Caravaggio, Chet Baker e Mirò, i Pink Floyd e Basquiat. E che trasformava pure noi stessi, dava un nuovo senso alla nostra passione per la bicicletta, la toglieva dalla banalità dello sport, la faceva diventare diversa.
Ci dava un tono, Marco Pantani.
Ci dava l’illusione di contare qualcosa, di non essere soli, nemmeno quando pedalavamo da soli.
Anche oggi che sono passati diciott’anni è così.
Diciott’anni non hanno portato niente. Ancora non siamo pronti a prenderci le nostre responsabilità di fronte a quello che è successo, all’idea che forse poteva andare diversamente. Questa resta, non se ne va, assieme a quei se a cui non riusciamo a dare una dimensione.
Marco Pantani è un rimpianto maggiorenne non sfiorato dalla maturità.