
La forza che nella verde miccia spinge Marco Pantani
14/02/2021San Valentino e quel giorno triste “nel quale, ora e negli anni a venire, ci accorgiamo e ci accorgeremo che qualcosa di grandioso è venuto a mancare”. Quel filo sottile che unisce Dylan Thomas al Pirata
Il 10 novembre del 1953, dopo la fine dello spettacolo, gli applausi, gli inchini e i bravi urlati dalla platea, dai palchi e dai loggioni, le luci non si affievolirono, rimasero fisse a illuminare ancora il centro del proscenio. Qualcuno non ci fece caso e se ne andò, i più invece, incuriositi da questa stranezza, rimasero ai loro posti. Dopo qualche minuto una mano scostò un poco il tendone. A piccoli passi Laurence Olivier avanzò sotto l’occhio dei riflettori. Aveva il volto scuro, lo sguardo perso in un punto generico al di là del pubblico, quasi questo non esistesse. In mano teneva qualche foglio. Si schiarì la voce. Iniziò a leggere.
La forza che nella verde miccia spinge il fiore
spinge i miei verdi anni; quella che fa scoppiare le radici degli alberi
è la mia distruttrice.
E sono muto a dire alla rosa contorta
che curva la mia giovinezza la stessa febbre invernale.
La forza che spinge l’acqua fra le rocce
Spinge il mio rosso sangue; quella che le correnti allo sbocco prosciuga
le mie trasforma in cera.
E son muto a urlare alle mie vene
che alla fonte montana succhia la stessa bocca.
La mano che vortica l’acqua nello stagno
mescola sabbie mobili; quella che imbriglia i venti anche la vela
regge del mio sudario.
E sono muto a dire all’impiccato
che la calce del boia è la mia stessa creta.
Dove la fonte sgorga, s’attaccano le labbra del tempo;
l’amore goccia e inturgidisce, ma il sangue che cola addolcirà
le ferite di lei.
E sono muto a dire alle intmperie
come il tempo ha scandito un cielo attorno agli astri.
Muto a dire alla tomba dell’amante
che verso il mio lenzuolo striscia lo stesso tortuoso verme.
Dopo aver finito rimase in silenzio qualche istante. Nel teatro nulla si muoveva se non gli sguardi degli spettatori che vagavano tra palco e vicini di seggiola, incerti se applaudire o meno.
Laurence Olivier si schiarì di nuovo la voce. “Dylan Thomas è morto ieri. Non avremo più la possibilità di leggere nuovi suoi versi. È questo un giorno triste, un giorno nel quale, ora e negli anni a venire, ci accorgiamo e ci accorgeremo che qualcosa di grandioso è venuto a mancare. Una ferita, una ferita profonda che si rimarginerà forse, ma che rimarrà sulla nostra pelle a memoria di quanto siamo stati fortunati a condividere la nostra esistenza con lui, ad averlo letto, sentito, visto, conosciuto. La sua morte segna la fine della possibilità di avere in dono ulteriore meraviglia. Ci resta quella passata, letta e riletta. Ci resta e ci deve bastare. Anche se non basterà. Passeranno gli anni e ogni 9 novembre che avremo davanti riporterà alla luce una mancanza alla quale difficilmente ci potremmo abituare. Lo faremo, perché tutto passa e la polvere degli anni offusca tutto. Ma poi verrà il 9 novembre e la polvere, almeno per un giorno, verrà spazzata via. E piangeremo, piangeremo ancora una volta”.
L’attore scomparve di nuovo dietro il tendone. Le cronache di allora non diedero notizia di applausi.

Ancora oggi, nel cimitero della chiesa di San Martino, poco fuori Laugharne, qualche fiore viene depositato sulla tomba di Dylan Thomas. La polvere degli anni non ha offuscato i suoi versi, perché la polvere degli anni non sempre si deposita, a volte decide di non attaccare. Laurence Olivier, anni dopo alla BBC disse che “Dylan Thomas è stato per me l’ingresso nel mondo della poesia, il ponte che mi ha permesso di entrare in un mondo nuovo”.
Il ciclismo non ha nulla a che fare con la poesia e un corridore non è e non può essere un poeta. Però le parole pronunciate da Laurence Olivier in quella sera del 10 novembre del 1953 al West End Theatre posso facilmente essere estese al ciclismo, a Marco Pantani. Perché, per chi ha avuto la fortuna di vedere il Pirata in bicicletta, quel senso di abbandono è lo stesso. La sua morte segna la fine della possibilità di avere in dono ulteriore meraviglia. Ci resta quella passata, letta e riletta. Perché anche Marco Pantani è stato ponte per tanti. È stato qualcosa di diverso rispetto a quello che gli stava attorno, qualcosa che riusciva ad accendere le emozioni delle persone, riuscendo ad attirare a sé gli sguardi anche di chi sino al momento prima le biciclette erano soltanto un ricordo di chiacchiere di padri o nonni.
In tanti si sono chiesti in questi anni cosa sarebbe stato di lui e di noi se quel giorno di Madonna di Campiglio non fosse successo quello che invece è successo. E come sarebbe andata senza quel San Valentino di diciassette anni fa. Mille altri pensieri sono venuti in mente, mille altre domande a cui nessuno è riuscito a dare risposta. Pensieri e domande che ritornano ogni 14 febbraio, il giorno che celebra l’amore in una buona parte del mondo, ma che a cavallo di una bicicletta riporta alla memoria solo un vuoto enorme e negli occhi decine e decine di scatti che non serve nemmeno rivederli.