Michele Scarponi è ancora in gruppo

Michele Scarponi è ancora in gruppo

22/04/2022 0 Di Giovanni Battistuzzi

Si può mica fermare il tempo. Non c’è possibilità. E a volte viene difficile pure mettere in fila i ricordi. Dare un consequenzialità, posizionarli in modo esatto in un tempo e in luogo. Appaiono nella mente, dentro di noi, e ci fanno rimanere lì incerti, a volte attoniti a cercare il quando e il dove di certe immagini, di certi suoni, odori, sapori che all’improvviso sono riemersi dal passato.

Accade questo a volte. A volte invece non va così. Il qui e il dove è immediato trovarlo. E non ci si può sbagliare, non c’è margine d’errore. Tutto è chiaro, soprattutto perché chiaro non lo era allora e quel ricordo in realtà è un’altra coltellata. Perché già prima, allora, una coltellata era stata.

Si rivive la stessa sensazione. E si sa che sarà così anche tra un anno e tra un anno ancora e chissà per quanto tempo.

Cinque anni fa, il 22 aprile, il sole aveva iniziato a fare il suo dovere, a riscaldare la terra da un’altra notte fresca, a tratti fredda. La mattina stava per terminare, la brina si era sciolta, quando tutto si fermò, tutto tornò a gelarsi. Possibile? Possibile. Bastarono quattro parole per rendere vane ore e ore di luce: “È morto Michele Scarponi“. Un lancio di stampa. Orribile. Un colpo al cuore, un battito saltato. Incredulità e poi lo sgomento che invade tutto, conquista ogni cosa. Dai è uno scherzo. Uno scherzo imbecille, di quelli di cattivo gusto. Si nega sempre ciò che non si vorrebbe sentire. Si nega, ma poi anche la negazione cade, se ne va.

Era tutto vero. Faceva schifo, ma era tutto vero.

Ci si poteva credere. Pochi giorni prima l’avevamo vincere al Tour of the Alps. La strada che saliva verso Hungerburg, la collinetta sopra Innsbruck, uno sprint prepotente, gli avversari messi in fila, le braccia alzate, la gamba dei giorni buoni.

Il Giro d’Italia si avvicinava, doveva correrlo da capitano, un po’ per sfortune altrui, soprattutto per meriti propri. Perché il ginocchio picchiato da Fabio Aru al Teide diventato un melone è un fattore imprevedibile, ma pedalare con quella facilità nel fu Giro del Trentino, era la dimostrazione che quando c’è la classe l’età anagrafica ha un peso relativo. Ci saremmo divertiti, lo sapevamo tutti, come sapevamo che Michele avrebbe trovato il modo di stupirci. Magari una vittoria di tappa, magari un giorno in rosa, forse anche solo un fuga matta. Chissà. Ma ci saremmo divertiti.

Quello sprint a salire verso Hungerburg rimane l’ultima immagine che tutti ricordano di Michele Scarponi. Il Giro d’Italia del Centenario, un lungo addio, un’assenza, un numero che non c’era, un buco nella lista dei partenti. Un vuoto incolmabile.

Un lungo addio che non è ancora terminato, perché a cinque di distanza Michele Scarponi è ancora una presenza dentro al gruppo, fuori dal gruppo, ovunque si muove il serpentone del gruppo.

Michele Scarponi e Vincenzo Nibali al Tour de France 2014
Foto di filip bossuyt via Wikimedia Commons

Lo si è visto nelle dita alzate al cielo di compagni di squadra e amici nei primi mesi e nei primi anni, e pure adesso che è passato un lustro. C’è nelle parole che sfuggono, negli occhi che si fanno lucidi al pensiero. C’è nell’attività della Fondazione Michele Scarponi che fa un gran lavoro per la sicurezza dei ciclisti, per dare un senso al suo addio, ché è arrivato e ci si può far niente. O invece sì, si può far tanto e Marco Scarponi questo tanto lo fa, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno.

C’è in quel brivido che colpisce a vedere certe immagini, perché certe immagini richiamano certi ricordi. E ai ricordi nessuno scappa, neppure Fausto Coppi o Eddy Merckx.

E sono cime montane, attacchi e difese, mai rese. C’è un racconto di bicicletta e in bicicletta. Una grande amore.

Come nel 2011 sul Gardeccia, Michele che scatta, che prova a togliersi di ruota Alberto Contador, ma lo spagnolo non diventa ombra lontana. Anzi. Contrattacca e stacca tutti, ma non lui, o meglio non di molto, qualche secondo appena. Dirà: “Contador è forte, ma io sto bene e non mollo. Ho provato a metterlo in difficoltà ma ci riproverò, lui è forte ma io ho una grande grinta. È dal primo giorno che lo vedo davanti. Conosco meglio la sua schiena che la mia”. Non lo riuscì mai a toglierselo dalla ruota, ma eccezion fatta per l’Etna non si fece mai staccare.

Concluse secondo quel Giro, lo vinse mesi dopo per procura, a causa di una squalifica arrivata in ritardo per una positività dello spagnolo al Tour del 2010. Disse: “In Italia le poste sono talmente in ritardo che anche la Maglia Rosa ti arriva mesi dopo”. Poi commentò: “Che ci crediate o no io non sono assolutamente contento. Per uno sportivo vincere a tavolino non è mai piacevole. Mi spiace molto per Alberto: lui è di un altro pianeta, ed è giusto riconoscerlo. L’anno scorso io ho fatto di tutto per vendergli cara la pelle, ma quando la strada saliva, fin dalla tappa dell’Etna, lui ha dato dimostrazione di forza e classe purissima. Non voglio entrare nella questione della sentenza, mi limito a dire che per me Alberto resta un fuoriclasse”.

Sapeva cosa vuol dire la giustizia sportiva, sapeva che non tutto è chiaro e che momentacci possono capitare a tutti, erano capitati anche a lui.

Era il 2009, era Austria, Mayrhofer, ma Giro d’Italia. Era il 14 maggio e Michele aveva oltre duecento chilometri di fuga sulle gambe quando, a otto chilometri dall’arrivo, il suo compagno d’avventura, l’ultimo rimastogli affianco, si rialzava in preda ai crampi. Otto chilometri e un minutino da difendere. Scarponi continuava, pancia a terra e lingua tra i denti. Continuava e non si voltava, imperterrito. Continuava e si girava solo a quattrocento metri dal traguardo e vedeva ciò che avrebbe voluto vedere, ciò niente, cioè il vuoto. Lo striscione d’arrivo e la redenzione ciclistica da anni cupi, da un errore ammesso e non più ripetuto. Il passato che scompariva, una vittoria che arrivava, lo esaltava. 

Michele Scarponi in quindici anni di ciclismo è stato tante cose, un mutamento continuo. Prima una promessa, poi uno da corse di un giorno, divenne capitano nelle corse di tre settimane, si trasformò in gregario, ritornò vincente. E in tutte questo movimento, in tutto questo cambiamento, non perse mai l’abitudine a prendere il ciclismo con un sorriso, con una battuta.

Era il 2016, era il 27 maggio, era la diciannovesima tappa del Giro d’Italia, Pinerolo – Risoul, 162 chilometri. C’era il Colle dell’Agnello a separare l’Italia dalla Francia, a oltre duemila metri muri di neve a bordo strada. C’era un uomo solo al comando alla ricerca dell’impresa, Michele Scarponi. Stava volando qual giorno, un portento ascensionale. Ma anche un altro uomo aveva provato il volo. Aveva la stessa maglia dell’avanguardista, sognava di ribaltare il già scritto, ossia un Giro che era quasi da buttare. Nibali scattava e la maglia rosa Kruijswijk chiudeva, ma a denti stretti, a gambe dure. E così lo Squalo provava a creare il solco il discesa, era a tutta. L’olandese di più. Sbaglia una curva, scopre quanto è morbida la neve. Poco. Perde terreno, non vedrà più l’italiano. Avvisato di tutto ciò, Scarponi si ferma, attende, si disinteressa di scrivere un pezzo di storia a pedali, per aiutare a realizzarne una più grande. Lavora per Nibali, lo lancia in salita, ne disegna l’impresa.

Ricordi di corse passate, diventate, loro malgrado, indimenticabili. Piccolo sprazzi di una vita sorridente, che avremmo voluto vedere diventare antica, memoria storica. Non ci è stato concesso. È diventata ricordo, nostalgia. Forse la stessa che ha portato Frankje, il pappagallo che ogni tanto lo seguiva nei suoi allenamenti, a passare per Filottrano, per casa Scarponi. Un saluto a un vecchio amico, la speranza di vederlo ancora una volta.

Perché forse Michele Scarponi è solo davanti al gruppo, in fuga. Forse è lì che se la ride perché non riusciamo a prenderlo. Si sa mai in salita. A volte i tornati vela chi fugge, non dà il dono della loro schiena. Forse Michele Scarponi è là dietro la curva. Dobbiamo accelerare il passo, controllare.