
La Milano-Sanremo di Chiappucci, un elogio alla follia
18/03/2022Le mani sulla faccia e poi sopra la testa e ancora sulla maglietta, sul caschetto. Mani baciate e aperte, esultanti e poi chiuse a pugno a percuotere il cielo, che non sanno dove stare. Quel che è sicuro è che stanno lontane dal manubrio, perché stringere il manubrio non serve più.
Il volto è un’esplosione, un sorriso che riempie e illumina, che non sa neppure lui dove stare. In quegli ultimi duecento metri di quella Milano-Sanremo, Claudio Chiappucci quasi non si rende conto di quello che è successo in quei 294 chilometri iniziati sotto un pioggerella fine e fastidiosa sino al Passo del Turchino e poi esplosa in una tempesta. Non metereologica, ciclistica.

Quel giorno, quel 23 marzo 1991, è tutto nato per caso, o forse per follia, perché nessuna persona dotata di senno poteva pensare di fare la rivolta a oltre centocinquanta chilometri dall’arrivo in un gruppo unito che sa che per raggiungere i due avanguardisti sarebbero bastati una decina di chilometri tirati come si deve.
Che sia stato caso o follia però poco importa. Perché quanto accade quel giorno alle spalle dei due avventurieri del mattino, William Dazzani e Stefano Zanini, non fu solo ciclismo, ma un romanzo, una lettera d’amore indirizzata a questo sport, un elogio alla tenacia e forse alla follia.
Il Passo del Turchino è da sempre la fine dell’inverno e l’inizio della primavera.
La strada è lunga, checché ne dicano i cinque chilometri e seicento metri ufficiali. Sono molti di più, oltre venticinque, perché da Ovada l’asfalto sale sempre, poco che quasi non si sente, ma costante. Si impenna, si fa per dire, solo negli ultimi millecinquecento metri al seiemezzopercento. Un invito ai coraggiosi. E se c’è una dote della quale non difetta Claudio Chiappucci è proprio il coraggio.
E così il Diablo si gira, parlotta con il suo compagno di squadra Guido Bontempi, gli chiede di dare una botta, di allungare il gruppo, che la pioggia a salire è un fastidio, ma quella a discendere è pericolo e bisogna stare davanti. E così Guido Bontempi, gigante di fisico e di tempra, si mette davanti, la botta la dà e la Sanremo si sconquassa.
Quando l’Aurelia si presenta sotto i palmer dei corridori il gruppo è uno spezzatino senza né capo né coda. Davanti i soliti due, al loro inseguimento nove uomini: i due della Carrera, gli olandesi Van der Poel (padre di Mathieu), Jelle Nijdam e Peter Stevenhagen, lo spagnolo Marino Lejarreta, il danese Rolf Sorensen, i francesi Charlry Mottet e Thierry Marie.
Nove uomini contro tutti, missione impossibile c’è da giurarci.
Gliene frega niente a quei nove però dei calcoli statistici. Tutta gente tosta. E alla gente tosta le percentuali che rendono matematico il possibile non interessano.
Pedalano di buona lena, guadagnano quattro minuti sul gruppo che intanto si è organizzato: troppo poco dicono tutti. Tutti meno che uno: Claudio Chiappucci. Il Diablo accelera sul Capo Cervo. Con lui restano Sorensen, Nijdam e Mottet, ma solo il danese collabora, gli altri sono al gancio e infatti sul Capo Berta mollano.
Lo scricciolo di Uboldo e il gigante di Helsinge se ne fregano, continuano.
Sulla Cipressa salgono forte, ma dietro di più. La logica direbbe di aspettare. Di dire che bene così, è stato bello anche solo immaginare una cosa del genere. Che era destino che finisse così.
Il fato è però un giogo per creduloni e Chiappucci se ne frega pure di quello.
Imboccato il Poggio accelera, Sorensen impreca. Al sesto tornante scatta, Sorensen impreca ancor di più, cerca di resistere, si stacca. I due non si vedranno più. Perché il Diablo sembra posseduto, non si volta un secondo, sale di rabbia e di follia. Scollina. E in discesa è un turbine che spacca l’asfalto, raggiunge Sanremo, trionfa in un altro turbine di gesti, di mani, di espressioni. Alla faccia di chi diceva che no, che la Sanremo la si vince agli ultimi metri.
La Milano-Sanremo di Chiappucci, un elogio alla follia.