
E il Berta filava. Quando la Milano-Sanremo si decideva sull’ultimo capo
19/03/2021Prima dell’introduzione di Poggio e Cipressa, il Capo Berta era l’ultima speranza per arrivare da soli sul traguardo della Classicissima
Prima del Poggio, prima della Cipressa, prima di tanto. Ma dopo di molto, del Turchino e pure dei primi due elementi della triade a picco sul mar Tirreno, quella dei capi. Tre, ma come fossero una cosa soltanto: melecervoberta, ritornello da sempre della marcetta degli ultimi sessanta chilometri della Milano-Sanremo.
Il Capo Berta è salita ed è donna: dolce, ammaliante, materna. Bellissima almeno per lo scenario che si presenta agli occhi dei corridori: una lingua d’asfalto che sale sinuosa tra sprazzi di blu mare e toni di verde che si mescolano e sovrappongono, sovrastando il grigio dei muretti di contenimento. Eccezionale, soprattutto per quello che all’occhio cela. La Torre Alpicella in cima al capo, cento metri più sul della strada coperta dai pini d’Aleppo e circondata dalla gariga. E più giù lungo la scogliera che si getta in un mare azzurro e colorato di pesci e fiori marini.
Il Capo Berta è salita, ma nemmeno troppo, un dentello messo là perché non poteva essere altrimenti: un dono della natura, una strada che asseconda la costa. Due chilometri di ascesa lungo l’Aurelia e qualche centinaia di metri in più di discesa. Un attimo arrivar in cima, ancor meno per tornare all’altezza del mare. Ma dopo duecentocinquanta chilometri di corsa anche un’asperità da niente si può trasformare nel luogo giusto per tentare l’affondo. Soprattutto nell’èra che anticipò l’asfalto, quando le strade erano tracciate nella polvere e la terra battuta e i sassolini erano la dimensione sulla quale ci si muoveva.
Il Capo Berta è salita e per oltre mezzo secolo è stata l’ultima occasione buona per salutare i compagni di viaggio e proseguire da soli la transumanza verso Sanremo. Almeno siano a quando Vincenzo Torriani introdusse nel 1960 la salita di Poggio all’interno del percorso della Classicissima per tentare di rendere dura la vita ai velocisti che da anni avevano preso l’abitudine di vincere in Riviera.
Il Capo Berta è il luogo dove Luigi Ganna (nella foto), il quattro aprile del 1909, si staccò di dosso l’ombra pesante di Emile Georget. A Sanremo arrivò da solo, tre minuti prima del francese e a via Roma iscrisse per la prima volta il nome di un italiano nell’albo d’oro.
È il luogo dove Angelo Gremo, il 6 aprile del 1919, staccò tre volte Costante Girardengo, due grazie alla foga, una a un foratura del sarà Campionissimo. Dopo il traguardo dirà: “Sull’ultimo dei capi andavo come una palla di cannone, se ne è accorto pure Costante”. E a chi sottolineò che Girardengo si fosse staccato soltanto a causa di una gomma sgonfia, rispose: “Sgonfio era lui. Di fatica. Gomma o non gomma aveva già venti metri di svantaggio”. Il Gira si limitò a dire che “se il Berta non ci fosse, sarebbe meglio”. Lì l’attacco lo provava qualunque suo avversario. Tano Belloni, Giovanni Brunero e compagnia sapevano che dovevano scappare su quell’ultima asperità, altrimenti il Campionissimo non lo si batteva: finì che per sei volte l’Omino di Novi timbrò biglietto per primo a Sanremo.
È il luogo dove nel 1949 Fausto Coppi salutò tutti e rifilò loro trenta secondi in due chilometri, che divennero oltre quattro minuti all’arrivo. “Uno squillo di tromba elegante com’è nelle sue corde, potente com’è nelle sue caratteristiche. Fausto Coppi a Sanremo è stato una fanfara sui pedali, un purosangue a cui tutti si sono dovuti ancora una volta inchinare nonostante l’affondo decisivo questa volta sia arrivato soltanto a poche decine di chilometri dall’arrivo. Il Capo Berta, che solitamente è speranza di molti, ha preso le forme di un Calvario per tutti dietro all’andatura imperiale dell’uomo celeste“, scrisse Orio Vergani sul Corriere.
Fu l’ultimo squillo del Capo Berta, il colpo di coda di un luogo che l’asfalto avrebbe addolcito a tal punto da renderlo innocuo.