
La mobilità è una questione culturale
29/10/2021L’importanza dell’educazione stradale a scuola e delle buone abitudini alla guida in famiglia. Il caso olandese e gli ingressi delle nostre scuole trasformati in parcheggi abusivi. Parla il professor Aert Visser, uno dei padri dell’educazione stradale nei Paesi Bassi
La tazza del cappuccino era rimasta sospesa e fumante a pochi centimetri dalle labbra. I suoi occhi avevano saltato la ceramica e si erano concentrati più in là, tra il grigio-marron dei sanpietrini e il blu di Persia intensissimo del cielo. Il suo volto si era bloccato in una contrazione di insoddisfatto stupore, come se un brutto incontro si fosse palesato dal passato a chiedere conto di quanto era successo all’epoca.
Un bar in una piazzetta nel centro di Roma. Qualche tavolino messo alla rinfusa, pochi pedoni, quasi nessun turista, nonostante il bel tempo, la stagione giusta per godersi al meglio la città e, soprattutto, la possibilità di muoversi. Certi angoli della capitale riescono ancora a concedere piccoli sprazzi di tranquillità. Era rimasto impressionato pure lui, aveva sottolineato che non gli era capitato ancora in quei giorni di ritrovarsi senza un nugolo di persone attorno.
Poi quella visione. Un macchinone coi vetri oscurati era entrato nel vicoletto, aveva fatto il pelo ai pochi passanti per fermarsi davanti a un palazzo. La portiera si era aperta ed erano usciti due bambini che, dopo un breve saluto e uno “studiateammamma” urlato dall’interno dell’abitacolo, erano entrati nel palazzo.
A quel punto lui si era alzato, aveva coperto a lunghi passi la breve distanza che lo separava dall’ingresso, aveva letto il cartello, aveva fotografato il macchinone che piano piano se ne stava andando per un altro vicolo e poi il luogo dov’erano spariti i ragazzini.
“Non credevo fosse possibile”, esordì ritornato al tavolo. Guardò di nuovo la piazzetta. “Com’è possibile una cosa del genere? È una zona pedonale. E lì c’è una scuola. Una cosa così non la vedevo da anni”.
Il professor Aart Visser ingollò un altro sorso di cappuccino, scosse la testa. Era da ventidue anni che non tornava a Roma, non l’aveva trovata cambiata, ma un po’ peggiorata, più nervosa e soprattutto in enorme ritardo rispetto alle altre capitali europee. “La pandemia ha imposto dei cambiamenti alle città. Roma è parecchio indietro. Tu puoi costruire ciclabili, alzare il prezzo dei parcheggi e ridurli, ma finché continuano ad accadere queste cose, ogni intervento che fai per la mobilità in città sarà se non inutile, quanto meno inefficace. La mobilità non è solo una questione di razionalizzazione del movimento, è prima di tutto una questione culturale“.
L’educazione stradale a scuola
Era il 1988 quando Aart Visser, all’epoca studente di urbanistica all’università di Utrecht, fu coinvolto nella realizzazione di quello che fu l’archetipo di tutti i programmi scolastici per l’educazione stradale. Progetto che venne inserito nel 1992 dal governo dei Paesi Bassi all’interno dell’offerta formativa consigliata e reso obbligatorio in circa la metà degli enti territoriali olandesi a partire nel 1996.
Nel 1995 Visser, assieme alla dottoressa Erika Elk, venne chiamato dalla ministra dei trasporti Annemarie Jorritsma-Lebbink a far parte di un gruppo di consulenza per le modifiche alle “normative relative alla mobilità e all’educazione stradale”. Il progetto che presentarono venne inserito nel programma didattico nel 1998 dal ministro dell’Istruzione Ronald Plasterk.
Come insegnare l’educazione stradale ai più piccoli
Il progetto consisteva nell’insegnamento delle basi dell’educazione stradale tramite il gioco e all’utilizzo delle più basilari conoscenze scientifiche per la risoluzione di facili problemi di ingegneria del traffico. “In pratica i ragazzi prima imparavano a scorrazzare in bicicletta, poi a rispettare le regole, infine, sempre giocando, capivano grazie alla matematica e alla fisica che se tante persone si muovono una per macchina in uno spazio ristretto, come può essere una città, allora si crea congestione e intasamento. E che se tutte quelle persone usano la bicicletta o vanno a piedi o usano i mezzi pubblici, il traffico diminuisce e tutti vivono più tranquilli”.
Aart Visser venne accusato nel 1999 di essere un “terrorista luddista”, un “odiatore delle auto”, un “talebano della bicicletta”. Ride ancora di queste accuse. “Non c’era stato ancora l’attentato alle Torri Gemelle e quindi nemmeno la missione in Afghanistan, quando mi accusarono di questo. Avevo appena vietato la fermata alle auto davanti alla scuola che avevo iniziato a dirigere ed era successo un finimondo”. Accuse che al professor Visser sembrano paradossali: “Il bello è che io non sono contro le auto. Una macchina ce l’ho e la utilizzo a volte. Io sono contrario all’utilizzo idiota dell’auto. E per tragitti sotto i dieci chilometri o nei centri cittadini mettersi al volante crea più problemi che benefici. E se scegli di volere più problemi che benefici quanto meno non sei una persona sveglia”.
Il problema di accompagnare in macchina i bambini a scuola
Il professor Aart Visser vive ancora a Utrecht e nessuno più, nei Paesi Bassi, si stupisce ora se c’è un divieto di fermata davanti a una scuola. “Fui uno dei primi presidi a istituirlo. Se ne parlava da anni, ma allora le cose iniziarono ad andare per il verso giusto e si poté iniziare a imporre il divieto. Si iniziava a capire allora che la mobilità, che il vivere in città a misura d’uomo, non era una questione di leggi o infrastrutture, ma una questione culturale”.
Per il professor Aart Visser accompagnare i figli in macchina sino davanti a scuola è uno dei tanti problemi culturali legati alla mobilità. “Come possiamo pensare che i nostri figli credano a quello che la scuola insegna loro se poi siamo noi genitori a non rispettare per primi le più basilari regole del buon senso? Fermarsi un attimo a far scendere un bambino in zona vietata, vuol dire dilatare quell’attimo sino all’eccesso. Vuol dire: vabbé le regole ci sono, ma posso fregarmene. Se lo fai su un campo da gioco dici vabbé. Ma se lo fai in strada rischi di ammazzare qualcuno. E finché non si capisce questo, finché non si educano i nostri figli o nipoti alla responsabilità del muoversi sulle strade, nessuna norma, imposizione o fantasmagorica pista ciclabile riuscirà mai a cambiare nel profondo le cose. L’educazione stradale a scuola serve, serve a tantissimo (come dimostra uno studio del 2013), ma serve anche che questo insegnamento non sia gettato nel pattume in famiglia”.
Nel 2020 nei Paesi Bassi sono morte 610 persone per incidenti stradali. Erano 1.166 nel 2000. “Sono quasi dimezzate”, merito anche dell’attenzione delle istituzioni scolastiche in fatto di educazione stradale. “Eppure non basta. Seicento persone sono una guerra civile. E questo in un paese ai primi posti delle classifiche europee in fatto di sicurezza stradale”.

Perché sono aumentati i ciclisti investiti nei Paesi Bassi?
Il dato preoccupante è però l’aumento del numero di ciclisti morti negli ultimi anni: 229 nel 2020, terzo aumento consecutivo. “E questo è un problema. Soprattutto narrativo. Com’è possibile che nel paese della bicicletta sono aumentati i morti in bicicletta? Guarda un po’ che la bicicletta non è poi così sicura? Chi vive in una paese a diffusa ciclabilità a una stronzata del genere non ci crede, sa benissimo che è una stronzata. A vedere da fuori questi dati però… Di illazioni del genere ne ho sentite ovunque. A Roma mi è già successo due volte in tre giorni”.
Eppure basterebbe analizzare i dati per capire che la bicicletta non è pericolosa e che il problema è altrove. “Quante persone sono morte da sole in bici? Sedici: tre sono finite in un canale d’inverno, sei hanno avuto un malore, sette sono stati travolti o da un ramo o da un albero o hanno avuto qualche sfiga varia ed eventuale. Quante persone sono morte scontrandosi in bici? Zero. Quante investite dagli automobilisti? Tutti gli altri. E la soluzione non è il casco obbligatorio per i ciclisti come sento dire, certo sempre meglio averlo, ma renderlo obbligatorio vuol dire deresponsabilizzare ancor più chi dovrebbe invece responsabilizzarsi”.
Il rapporto tra morti e chilometri percorsi è tra i più bassi al mondo. Eppure non basta “Le bici sono aumentate, gli spostamenti sono aumentati, ma le infrastrutture non sono migliorate. E in certe zone dei Paesi Bassi si è a lungo scelto di tenere separati automobilisti e ciclisti. Quando le ciclabili esterne sono diventate insufficienti, chi pedalava è stato costretto a farlo in strada e alle prese con automobilisti non abituati alla prossimità con le biciclette ecco che sono aumentate le tragedie”.
Che la mobilità sia una questione culturale lo si percepisce anche da questo. “Quando sento dire che i ciclisti dovrebbero muovere solo su infrastrutture dedicate e protette mi prende lo sconforto. La convivenza non si è mai realizzata creando riserve o ghetti. Si crea sicurezza partendo dal rispetto, non con le sanzioni. E il rispetto lo si conquista solo con la prossimità e la conoscenza. Questo vale ovunque, soprattutto sulle strade. Auto e bici devono vedersi, imparare a conoscersi, magari grazie anche all’utilizzo di corsie ciclabili. Pensare di piazzare chi pedala fuori dalla carreggiata crea più danni che benefici. Chi aveva puntato su questo modello nei Paesi Bassi sta capendo di aver commesso un errore”.
Per il professor Aart Visser chi si è approcciato recentemente a una revisione della mobilità, favorendo la ciclabilità, questo l’ha capito meglio di chi è da anni che si è occupato del tema. “Sia in Spagna che in Francia, soprattutto a Parigi e in buona parte dell’Île-de-France, hanno iniziato a occuparsi di ciclabilità in modo saggio. Dovremmo osservarli perché ci sono molti spunti buoni”. Sembra incredibile che uno dei paesi dove circolano più biciclette possa prendere ispirazione da un altro paese, quando la quasi totalità degli stati prende ispirazione dai Paesi Bassi. “Mica vero. C’è bisogno di idee per non morire di errori. Pure noi ne abbiamo commessi. Quest’estate sono stato una settimana a pedalare in Slovenia. Penso che non ci sia in Europa un paese con idee più innovative in tema di mobilità della Slovenia. Tra qualche anno sarà la Slovenia il modello da seguire”.