Myngheer, Demoitie e quello che non vogliamo capire sulla loro morte

Myngheer, Demoitie e quello che non vogliamo capire sulla loro morte

29/03/2016 0 Di Giovanni Battistuzzi

Due giorni. Due addii. Tristi, crudeli. Due modi diversi di andarsene, due modi entrambi subdoli. Daan Myngheer, era olandese, aveva 22 anni, è stato fregato dal suo cuore. Un infarto al Criterium international, breve corsa a tappe in Corsica, tre giorni in coma, la morte nella notte. Antoine Demoitie, era belga, aveva 25 anni, è stato fregato da una moto. Pare che fosse caduto e sia stato investito dalle due ruote a motore dell’organizzazione.

Due eventi diversi, che non hanno nulla in comune, che è sbagliato accostare, ma che lasciano la stessa amarezza.

Il primo è il caso, il tradimento di un corpo. Alcuni lo chiamano fato, sicuramente è natura. Il cuore è saltato, ha deciso che era ora e quando ciò accade non ci si può fare niente. Vanno capite le cause, va spiegato il perché un ragazzo di 22 anni ha fatto quella fine. E’ difficile capirlo in ogni caso, è difficile farsene una ragione, ma così è accaduto, il ciclismo è uno sport dove i corridori sono ipercontrollati, sono schedati e scannerizzati mille e mille volte. Qualcosa può essere sfuggito, qualcosa può non essere stato visto, è già successo, succederà. Il nostro corpo è una macchina complessa e la scienza migliora di mese in mese, ma tutto non può capire, tutto non può sapere.

Per Demoitie invece il caso non c’entra. Dare al caso la colpa della sua dipartita è ingiusto, scorretto, vigliacco. Non esiste il fato in un mezzo a motore che investe un corridore. Non esiste il fato in un mezzo a motore che investe un qualsiasi ciclista. Né in corsa, né in una qualsiasi strada. Non c’è caso e non c’è competizione tra bicicletta e automobile, tra bicicletta e moto.

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Lo sanno bene Hoogerland, Broeckx, Sagan, Van Avermaet, Fuglsang. Lo sanno bene tutti coloro che scendono in strada a cavalcioni di una bicicletta ogni giorno per andare al lavoro, per allenarsi, per andare a farsi un giro. Lo scontro è impari, le tutele inesistenti. I mezzi a motore si ergono a giudici della sopravvivenza dei pedalatori, sono aggeggi infernali, che sui ciclisti hanno potere di vita o di morte. E non lo vogliono capire, non vogliono sentire ragioni contrarie. La loro è tirannide. Quotidiana sulle strade, episodica in corsa. Solo due sono le differenze: attenzione e velocità. In corsa la prima è elevata, la seconda quasi sempre moderata. I ciclisti sono i protagonisti, motociclisti e automobilisti sono spettatori interessati. Per anni sono stati al loro posto. Per anni hanno fatto il loro, ripreso, portato borracce e ruote. Poi sono cresciuti di numero, sino a tramutarsi in invasione. Un’invasione che si è presa la scena. Sempre più macchine, sempre più motoripresa, più cambiruote, più sponsor, più ospiti, più cronaca.

Più e basta. Troppo.

Lo aveva detto Sagan: “Ormai ci sono più moto che corridori. Vanno regolarizzate, oppure prima o poi avverrà l’irrimedibile”.

L’irrimediabile è arrivato. Antoine Demoitie non c’è più. Se ne è andato come se ne era andato un giorno prima di lui un cicloamatore a Roma, sull’Aurelia. Come se ne sono andati 250 in Italia nel 2014, ancor di più nel 2015 (ma mancano ancora i dati ufficiali). Il problema è generale e accomuna professionisti, dilettanti, cicloamatori e ciclisti urbani. Il problema sono i mezzi a motore, la loro autoproclamazione a regnanti della strada.

Ma la colpa è anche nostra. Di noi appassionati. La colpa è anche nostra che chiediamo di vedere nei minimi particolari la corsa, che vogliamo i primipiani i campilarghi e quelli stretti il dettagliosullacatena perché devofarloanchio, capire le smorfie dei corridori. Noi che chiediamo di più, sempre di più, lo spettacolo dentro il salotto e siamo sempre meno disposti a uscire sulle strade.