
Un mistero chiamato Nairo Quintana
23/02/2022Come è stato possibile che un corridore come Quintana abbia vinto solo un Giro e una Vuelta? La Colombia, la libertà e le speranze dei tifosi
Tra le grandi domande a cui è complicatissimo dare un risposta, almeno per quanto riguarda il ciclismo degli ultimi anni, c’è questa: come è stato possibile che Nairo Quintana abbia vinto solo due grandi corse a tappe?
Era a Trieste, un giorno di otto anni fa, il primo giugno del 2014, quando il colombiano saliva sul gradino più alto alto del podio del Giro d’Italia. Sembrava il primo di una serie. Si è trasformato, forse definitivamente, nel primo e penultimo della sua carriera. Quintana vinse anche la Vuelta del 2016. Poi basta.
Sia chiaro, vincere almeno due grandi giri in carriera è qualcosa che non riesce a tutti: ci sono riusciti in 118 in 118 anni, ossia dalla prima edizione del Tour de France all’ultima edizione della Vuelta a España.
Eppure quando per la prima volta vedemmo Nairo Quintana scattare in salita, sul Col de Joux Plane al Critérium du Dauphiné del 2012, ci apparve chiaro di avere davanti uno scalatore eccezionale, uno che avrebbe potuto mettere in difficoltà tutti. Uno insomma che avremmo visto trionfare più e più e più volte. Non è andata del tutto così.
Perché Quintana è rimasto un mistero. Uno di quelli che mettono in crisi allo stesso modo di certe cose spiegabili sì, ma non proprio del tutto: perché i calzini si spaiano e se ne trova sempre e solo uno? perché un pezzo di pane quando cade tocca il terreno sempre dal lato della marmellata? perché erano introvabili le figurine di Volpi e Poggi? come diavolo ha fatto Sagan a non finire per terra quando Cancellara gli era caduto davanti?
Cose così. Domande senza risposta al pari di un “dov’è Bugo?” qualsiasi.
Proprio per questo ogni anno tra febbraio e marzo, ossia quando i corridori si tolgono di dosso il letargo invernale e iniziano di nuovo a correre, a scattare, a darsi battaglia per cercare di mettere la ruota davanti a quelle di tutti gli altri, accade che un’idea appaia nella testa di tanti.
Un’idea che è un’altra domanda: e se fosse l’anno buono?
Il soggetto è sempre lo stesso: Nairo Quintana.
E ogni anno tra febbraio e marzo, sistematicamente, il colombiano fa qualcosa che rende questa domanda meno ovvia e la risposta, NO, meno scontata. Nel 2020 questo NO sembrava sul punto di cedere. Ci si è messo il Covid a rovinare tutto.
Uno scatto, un’azione da grande corridore, un tentativo di coraggio e ambizione. Quelli che perde, anche in questo caso sistematicamente, quando le temperature si alzano e le gare acquistano di importanza. Soprattutto ci sono le vittorie, di tappa e di corse, quelle che illudono in tanti che sì, quest’anno Quintana tornerà a essere un meraviglioso protagonista.
È accaduto ancora.
Prima il 13 febbraio, sulla Montagne de Lure nella terza tappa del Tour de la Provence. Uno scatto dopo l’altro, piegando le resistenze di Julian Alaphilippe.
Poi, qualche giorno dopo – il 20 febbraio – sul Col de Saint-Roche nella terza tappa del Tour des Alpes Maritimes et du Var. Un allungo all’insù, una planata all’ingiù e via di torno tutti gli altri. Un finale solitario né triste né final.
Le baldanze invernali, soprattutto negli ultimi anni, però quasi mai arrivano alla primavera e all’estate. Quintana è diventato un bucaneve destinato ad appassire con il passare dei giorni e l’aumentare delle temperature. Accade sempre, anno dopo anno, inverno dopo inverno che si trasforma in primavera e poi in estate.
Gli anni della gioventù, quelli nei quali sembrava che fosse solo questione di tempo, di un cumulo in più di esperienza, sono passati, sostituiti da una sensazione di vorrei e potrei ma non riesco.
In questi anni però quello che sembra essere mancato a Nairo Quintana non sono le gambe. È altrove che si dovrebbe cercare per capire cos’è accaduto allo scalatore colombiano, in quell’assenza che si è palesata continuamente mentre lui danzava in salita.
È come se esistessero due Nairo differenti. Quello di Cómbita e quello che corre in Europa. Due Nairo talmente distanti che difficilmente possono essere non solo solo sovrapposti, ma addirittura messi in relazione.
“Ho incontrato Nairo anni fa, credo fossero i primi mesi del 2017, pedalammo qualche decina di chilometri assieme dopo un evento sulla mobilità che avevo organizzato per far capire al pubblico come grazie a Nairo la Colombia potesse immaginare un futuro diverso e ciclabile”, dice a Girodiruota Chaco Pérez. “Ricordo due cose di quell’incontro e degli altri che ci furono. Il primo è il suo sorriso. Un sorriso sereno e placido. Quello che non gli ho mai visto quando correva in Europa. Il secondo è una frase: ‘La bicicletta è libertà e su di una bicicletta non puoi non sentirti libero. Eppure ogni tanto cavalchi questa libertà senza davvero sentirti tale’. Questa frase mi ha colpito perché forse è proprio questo che è mancato a Nairo in questi anni: la possibilità di abbracciare la libertà”.

In un’intervista alla televisione colombiana, Luis Fernando Saldarriaga, uno dei primi tecnici colombiani a seguirlo, ha spiegato che “Nairo è un professionista serio, uno che ben chiaro il senso del dovere, di cosa va fatto per diventare un grande corridore: è un preciso, uno che si applica totalmente a questo sport. Il senso del dovere però una cosa, la dimensione dell’obbligo però è un’altra. E l’obbligo è quel qualcosa che corrode il campo della passione umana“.
Saldarriaga ha sottolineato che il ciclismo degli ultimi dieci anni ha più obblighi che doveri: “Obblighi di vittorie, di schemi, di corse. Ma è con gli obblighi che si stritolano le volontà e le velleità. Un puma è un puma solo se lasciato libero di muoversi. Se è chiuso in gabbia è un’altra cosa: non diventerà mai un gatto domestico, questo è ovvio, ma non sarà più neppure un puma”.
Quintana è un puma che torna a essere puma quando ha la possibilità di fare ciò che più ama: essere libero in bicicletta. Quando ha potuto fare a suo modo, prima del Giro d’Italia del 2014 e della Vuelta a España del 2016, non ce n’è stato per nessuno. In quella faccia imperturbabile, in quell’espressione assorta, quasi mistica, era apparso addirittura un sorriso, “esattamente uno di quelli che gli si può vedere stampato addosso quando pedala qui, nelle sue terre”, dice Chaco Pérez.
Forse questo e solo questo è mancato a Nairo Quintana in questi anni. Un sorriso in più. Una libertà che cercava in Colombia e che in Colombia trovava, ma che si esauriva troppo presto ritornando in Europa.
Dicevano che era proprio la Colombia il suo problema. Che se ne stava troppo là, che troppo tempo in altura intasava il motore, non lo faceva rendere al meglio. Come se un corridore fosse solo motore e non anche serenità, entusiasmo e intuizione.
“O forse semplicemente quello poteva vincere e quello ha vinto. Ed è a noi tifosi che questo non basta, perché ne vorremmo ancora, ne vorremmo sempre di più”, chiosa Chaco Pérez. “Chissà”.