
Una bicicletta grande come l’Everest. Intervista a Omar Di Felice
06/02/20211.300 chilometri sino alla base del tetto del mondo. “La sfida sta nell’utilizzare il mezzo a me più congeniale lì dove ti dicono che non può arrivare, dimostrare che la bicicletta arriva dappertutto”
Otto otto quattro otto. Quattro cifre che unite sono il limite altimetrico dell’esistenza, la cima dell’Everest, la montagna più alta al mondo. C’è nulla sopra, solo cielo e stelle e pianeti sparsi qua e là nell’universo.
Rocce antichissime, storia recente. I primi uomini a raggiungere la cima, o almeno i primi certificati a esserci riusciti, furono il neozelandese Edmund Hillary e lo sherpa Tenzing Norgay: 29 maggio 1953. Prima di allora in diversi ci hanno provato, qualcuno ci ha lasciato la pelle, altri hanno pensato bene di tornare indietro. Era sconosciuto ai più l’Everest, un punto sperduto nel globo. Poi negli anni Sessanta, da oggetto di discussione per alpinisti appassionati, iniziò a diventare antonomasia di ciò che più alto non c’era, icona del concetto di verticalità.
Nel 1969 un frate originario di Arzignano, padre Fabiano Fantin, dopo aver a lungo sentito parlare Mario Rigoni Stern di come le montagne fossero un luogo dello spirito e dopo aver constatato la progressiva perdita di fede e di spirito della società che gli stava attorno, decise di prendere la via del Nepal per provare a salire in cima al monte e in questo modo avvicinarsi a Dio. Arrivato a Kathmandu, proseguì verso Khumjung e iniziò a salire verso la sommità. Non gli ci volle molto per capire che non era impresa che poteva portare a compimento, nonostante le sue numerose avventure montane sulle Dolomiti. Si fermò al monastero di Tengboche e lì rimase per circa dieci anni, alla ricerca di ciò che il Veneto degli anni Sessanta aveva perduto. Dieci anni durante i quali mescolò il suo cattolicesimo al pensiero buddista, convincendosi però che la vita spirituale non poteva bastare all’uomo, perché non poteva esserci spiritualità senza socialità. Quando decise che era tempo di tornare in Italia, provò a rendere edotto il Vaticano della sua illuminazione, nessuno però ritenne davvero di ascoltarlo, perché nulla è più sciocco che mescolare credo e ciarlataneria. Anzi, gli dissero che era il caso che ritrovasse la fede. Si ritirò in Francia, in una comune spirituale sulle pendici dell’Iseran, che forse non è l’Himalaya ma è comunque il valico aperto al traffico più alto d’Europa. Lì sostituì i ramponi con la bicicletta, “mezzo capace di liberare l’uomo dalle storture della società”.
“Tutto quello che ci allontana dalla nostra civiltà, apparentemente più moderna, più tecnologica, più avanzata, ci aiuta sistemare un po’ i conti con noi stessi. Questione di concentrazione. Allontanarsi da tutto per un periodo ci aiuta a dare alle cose della vita il giusto peso. È anche per questo che a volte ho bisogno di inseguire tutto questo, di immergermi in spazi incontaminati, siano essi orizzontali come un deserto o verticali come una montagna non cambia. L’unica cosa di cui sento la necessità è raggiungerli. Questa volta ho scelto la verticalità, la montagna”, dice Omar Di Felice, ultraciclista, atleta che ha portato negli anni la bicicletta dove non era mai arrivata, percorrendo chilometro dopo chilometro distanze che molti appassionati percorrono in un anno.
L’anno scorso in sella a una bicicletta aveva attraversato d’inverno l’immensità del deserto del Gobi, Mongolia. Da lì aveva visto la pandemia invadere tutto, ridisegnare abitudini e convenzioni. La sua avventura l’ha comunque portata a termine.
Tra pochi giorni ne inizierà una nuova, l’esplorazione della verticalità più grande, quella dell’Everest. Ovviamente in bicicletta. La volontà è di arrivare lì dove gli alpinisti partono per provare a raggiungere la vetta, al campo base, 5.364 metri sul livello del mare. “Che non sarà la quota più alta che supererò, prima ci sarà il Thorung La, 5.416 metri, il passo transitabile più alto al mondo, in pratica è come fare lo Stelvio e poi in cima posizionarci un altro Stelvio”
Non c’è nulla di folle nella volontà di Omar Di Felice di pedalare in inverno sotto le vette himalayane. Estremo, forse, ma non c’è follia in lui, solo una convinta consapevolezza di cosa è possibile affrontare e cosa no. Al campo base guarderà in cima, sognando forse la vetta, ma conscio che “per affrontare un Ottomila in inverno serve preparazione, capacità e conoscenza della montagna, sarebbe presuntuoso anche solo pensare di poter intraprendere qualcosa del genere”. Non c’è limite da provare a superare, nessuna asticella da alzare o qualcosa da battere. Curiosità di esplorazione, volontà di arrivare dove nessuno s’è mai avventurato, tracciare la via. “Pedalare in questa parte del mondo d’inverno è qualcosa che non si è mai fatto. Però non è detto che ciò che non si è mai fatto non lo si possa fare davvero. La bicicletta non è il mezzo più comodo per girare nell’Himalaya, tra neve, ghiaccio eccetera, camminare sarebbe più agevole. Sono consapevole che per alcuni tratti dovrò mettere i ramponi e spingerla a mano, che in altri me la metterò in spalla a mo’ di ciclocross. La sfida però sta qui: utilizzare il mezzo a me più congeniale lì dove sai che ti dicono che non può arrivare, dimostrare che la bicicletta arriva dappertutto”.

Quando chiesero a Gastone Nencini quale fosse il suo segreto per andare così forte in discesa, il campione mugellano, sorrise prima di rispondere: “Nessun segreto, ma la nave aiuta”. A chi gli chiese quale fosse il senso della sua risposta, spiegò che da piccino con la bici si lanciava giù da una discesa dietro casa quando nevicava. “Si impara a capire cosa si può e non si può fare su di una bici”. Sulla neve, in discesa, si galleggia, serve precisione e pulizia, essenzialità. Sulla neve, in generale, servono soprattutto “gomme larghe, pressione adeguata, precisione. Ma nessuna fat bike perché non troverò solo neve, il percorso è misto ed è meglio una bicicletta tradizionale. Soprattutto una buona dose di olio di gomito”, spiega Omar Di Felice.
L’Everest è l’ultima montagna misurabile, al di sopra c’è solo l’infinito. È il traguardo oltre il quale non si può arrivare. Una meta della fatica. Dagli anni Novanta, dai primi computerini da bici che misuravano oltre i chilometri percorsi anche il dislivello superato si è iniziato a pensare che ogni collina, ogni colle e ogni montagna potesse essere trasformata nella regina delle montagne. La moda dell’Everesting, ossia del salire e scendere da una salita sino a quando si raggiungono gli 8.848 metri di dislivello positivo, è nata attorno i primi anni Novanta. Leggenda vuole che il primo ad averci provato fu George Mallory, nipote omonimo di quel George Mallory che morì nel primo tentativo di scalata dell’Everest, forse per esorcizzare la morte del nonno. Da allora c’è pure una classifica per le everestizzazioni più rapide. Il lockdown ha aumentato i tentativi.
A Omar Di Felice le everestizzazioni interessano poco o nulla, “trovo molto faticoso a livello mentale dover fare una cosa molte volte. Prendi i rulli. Io non ho problemi a pedalare per giorni di fila, ma se dovessi fare due ore sui rulli non ce la farei. Sono sicuro che li butterei fuori dalla finestra”. La bici è movimento, ricerca, evasione. “Dopo l’avventura in Mongolia, nella quale ho percorso in senso orizzontale la solitudine, l’infinito e la meraviglia, volevo trovare le stesse sensazioni ma verticalmente. E allora mi sono chiesto cosa c’era di paragonabile al deserto del Gobi tra le montagne. La risposta era scontata: l’Everest. Ma più la ripetevo meno mi sembrava scontata, anzi sempre più affascinante”.
Se i 2.000 sono l’altitudine che limite dove si vede la differenza tra un corridore buono e uno ottimo, almeno per le corse a tappe, nel mondo esagerato dell’Himalaya, i duemila saranno l’avvio, i tremila il riscaldamento, i quattromila la rampa che porta a oltre i cinquemila. “Ed è qui il grande punto interrogativo a cui dovrò trovare una risposta. Come riuscirò ad ambientarmi, come riuscirò ad acclimatarmi a quelle altitudini? Una volta abituatomi dovrò mettermi a fare cosa faccio di solito sopra i 4.000 metri. Non sarà facile certo, in molti punti dovrò ritornare indietro, ritornare a quote più basse per fare in modo che il mio fisico si abitui all’altitudine. Sarà però stimolante, un viaggio verso la conoscenza del mio corpo”.
Omar Di Felice parte oggi per Kathmandu. Lì dovrà rimanere in quarantena fiduciaria per qualche giorno, il tempo di due tamponi, di capire che tutto va bene. Il 15 febbraio partirà. Prima verso ovest, verso il confine con la Cina. Poi verso ovest verso il campo base dell’Everest.

In totale saranno 1.300 chilometri e 40.000 metri di dislivello, molti dei quali oltre i quattromila metri, oltre il limite massimo delle nostre cime, il doppio di quello dei nostri passi.
La foto in copertina è di @6Stili – Luigi Sestili