Omloop Het Nieuwsblad. Essere Wout van Aert

Omloop Het Nieuwsblad. Essere Wout van Aert

26/02/2022 0 Di Giovanni Battistuzzi

Wout van Aert ha vinto la Omloop Het Nieuwsblad. Una vittoria dopo le prime rinunce per inseguire il suo sogno: il Giro delle Fiandre


A vedere come è finita l’Omloop Het Nieuwsblad, e soprattutto com’è andata prima che le ruote delle biciclette ritrovassero il piano che conduceva all’arrivo verrebbe da dire, e pure con una certa sicurezza, che tutto è andato come doveva andare.

D’altra parte Wout van Aert aveva fatto capire ben prima degli ultimi due muri della prima classica fiamminga in calendario (e primo appuntamento europeo del World Tour), di aver in potenza quello che ha dimostrato su asfalto e pavé: trasformarsi in lepre, diventare visione, non farsi acchiappare più.

Poteva essere più lunga la solitudine di van Aert. Ma è inizio stagione, la prima corsa, per lui e per altri, in gruppo, soprattutto l’Omloop ha in sé un climax da rispettare.

Perché quando si decide di piazzare al centro del proscenio nel momento più intenso della rappresentazione ciclistica il Muur – per essere geografici e antonomastici il Muur van Geraardsbergen – un pensiero alla scenografia dell’allungo lo si fa per forza.

Gli è andata male a van Aert. Perché la solitudine di quella striscia di pietre che in un chilometro passa dai 33 e arriva ai 101 metri d’altitudine, lì dove sfiora la cappella dedicata alla Nostra Signora di Oudenberg, s’è l’è goduta Tiesj Benoot, che da quest’anno di Wout è gregario, guardiaspalle e forse qualcosa di più.


Benoot solo sul Muur alla Omloop Het Nieuwsblad
Foto tratta dal profilo Twitter della Jumbo-Visma

Del teatro a van Aert sembra non interessare però.

Essere Wout van Aert è di anno in anno sempre meno facile. Ché il talento è noto, esuberante e intrepido, ma è talento conosciuto, non più soltanto notorio, ormai famoso. Il talento crea timore e il timore in bicicletta si trasforma in una considerazione, semplice semplice, in tutti i suoi avversari: tira tu che non mi freghi.

Essere Wout van Aert è soprattutto diventato un fatto di scelte, di nuove privazioni, di centellini e decantazioni. “Nelle ultime campagne del Nord, ero in buona forma all’inizio, ma la mia forma era progressivamente peggiorata”, aveva detto a CyclingNews.

Ventotto anni sono un’età che porta con sé l’esigenza di definire delle priorità. Perché correre per correre, per vincere il più possibile, non sempre è la via giusta per arrivare a ciò che si vuole davvero, soprattutto se ciò che si vuole davvero ha due nomi, che poi sono la stessa cosa: Giro delle Fiandre e Parigi-Roubaix, ossia il massimo a cui si può ambire se si prova un amore sincero e totalitario per le pietre del Nord.

E così Wout van Aert, per essere davvero il Wout van Aert che vuole diventare, si è privato dei Mondiali di ciclocross, quest’anno americano (su Alvento trovate un racconto magnifico della rassegna iridata di Fayetteville), ha deciso di ridurre il suo impegno primaverile, di sacrificare Strade Bianche e Tirreno-Adriatico. E di parecchie altre cose.

Tra le tante cose a cui ha rinunciato è l’assolo sul Muur. Ha preferito il cesello allo scalpello per una volta. Ha messo tutti in fila sul Bosberg, lì li ha abbandonati al loro destino di inseguitori. Si è infuturato verso un passato che voleva dire Fiandre, e che ora vuole dire Omloop, ma tant’è, pari è. Almeno, o quasi, a queste latitudini.

Essere Wout van Aert è solitudine in testa al gruppo, normalità per chi prima di stupire i tifosi a bordo strada, ha stupito ed entusiasmato quelli a bordo stradello.

Wout van Aert fa il conto con il tempo che passa, con quello che ha fatto e quello che vorrebbe fare, soprattutto con la Ronde e quell’inizio di paura che possa trasformarsi nella sua più bella cosa mai successa.