
Parigi-Roubaix. La ragione di Mathieu van der Poel
09/04/2023Tanti saluti anche alla Foresta di Arenberg, o Trouée d’Arenberg per rispetto delle tipicità geografiche. Se c’era una cosa sicura nella vita, in un’epoca di insicurezze ciclistiche croniche, è che almeno la Foresta di Arenberg, o Trouée d’Arenberg fate come volete, era il punto d’avvio della lotta per la vittoria della Parigi-Roubaix. Se ne fanno un baffo i corridori ormai di queste tradizioni. Tocca tenerne da conto, indipendentemente da ciò che eravamo abituati a vedere, tocca apprezzare questi anni perché si sa mai che possano finire. Non è detto che l’estensione del godimento che proviamo ora possa essere eterna, quindi apprezziamo e applaudiamo il momento.
Alla Foresta di Arenberg, o Trouée d’Arenberg, era ormai parecchio deciso, sebbene nulla fosse risolto. Non s’è visto il solito affannarsi in testa al gruppo per le prime posizioni, si è arrivati già parecchio sfilacciati. Chi era davanti, davanti è uscito e davanti è arrivato, il resto è stata una processione verso un patibolo pietroso. Poco male, le tradizioni non hanno alcuna importanza ormai. Se la Parigi-Roubaix di Mathieu van der Poel si sia materializzata dopo, su pietre più consone, almeno storicamente parlando, per l’assolo lo si deve soltanto al fatto che il pavé necessita di un tempo di logoramento, di decantazione. Che altro non è che il tempo scenico della suspance.
Poteva essere la Pasqua di Wout van Aert, il giorno del successo di un interprete eccezionale delle corse sulle pietre che per ora sulle pietre è andato incontro a gioie sfumate, smarrite sul finale, evaporate negli ultimi chilometri. C’erano tutti i presupposti. Erano stati lui e la sua squadra a mettere da parte la tradizione, a provare a scrivere un nuovo copione.
Non è andata così, la Parigi-Roubaix è una pièce che va per conto suo, che non prevede per forza il lieto fine. Quale sia il lieto fine lo scelgono le pietre, solo loro a premiare o respingere. A volte non va così, ci pensa il cemento del velodromo, ma è altra storia, non questa.
Perché questa è la storia della Parigi-Roubaix di Mathieu van der Poel, del suo finale solitario, che poteva essere un duetto, ma è diventato un assolo. Un uomo solo davanti a tutti, e per merito, nonostante quanto capitato al pneumatico di Wout van Aert, sgonfiatosi sul più bello, nel momento esatto nel quale van der Poel è diventato solitudine.
Dispiace per il belga, ma le corse sono così, un terribile e meraviglioso gioco di sorte, forza e bravura. Una terribile e meravigliosa gincana delle avversità. Quella che ti sussurra che la sfortuna serve dribblarla, lasciarsela alle spalle. Wout van Aert ha forato, Mathieu van der Poel no. Ha avuto ragione Mathieu van de Poel, perché è anche questo il ciclismo, l’esaltazione di chi è capace di andare forte, più forte degli altri, e di schivare le fregature della sorte.
Ha sempre pedalato bene Mathieu van der Poel, bene a tal punto che vederlo galleggiare sulle pietre era uno spettacolo di arte funambolica, quella che la Parigi-Roubaix reclama ed esalta, quella che vuole perché il galleggiare sulle pietre non è mai solo questione di saper pedalare nelle difficoltà, è qualcosa di più, vuole gente degna, appassionata, amorosa.
Mathieu van der Poel è stato bravo tra tanti, è stato il più bravo tra pochi, quelli rimasti lì, al momento decisivo, soprattutto in piedi. Non è semplice riuscire a stare in piedi sul pavé della Parigi-Roubaix. A terra ci vanno pure i migliori. Basta poco, una distrazione, tipo quella che ha avuto John Degenkolb.
Il tedesco era stato attento, eccellente a suo modo, poi ha trovato l’erba sotto le ruote e il terreno sotto il corpo. Poteva andare diversamente e sarebbe stato un bel finale, ma così non è stato. Dispiace, ma la Roubaix è anche questa, l’arte dello stare in piedi in un palcoscenico talmente orribile e dimenticato da Dio da essere magnifico.
Mathieu van der Poel è rimasto in piedi, è soprattutto stato il più lesto e più bravo a lasciarsi alle spalle i problemi. A tal punto da ritrovarsi da solo, avanti a tutti. Avrebbe forse voluto la cortesia di una foto ricordo con il nulla alle spalle, come è d’uopo per chi si è sbarazzato di tutti.

Si è dovuto accontentare di avere impresso alle spalle un compagno di squadra esultante per una vittoria non sua e di un rivale corrucciato per una vittoria mancata, sfuggita veloce come un soffio di aria uscita da uno pneumatico. Erano distanti, sembravano vicini, prossimi. La Parigi-Roubaix è questo, uno specchio deformante.
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