Perché l’Uci se ne frega della sicurezza dei ciclisti?

Perché l’Uci se ne frega della sicurezza dei ciclisti?

04/08/2022 0 Di Giovanni Battistuzzi

Per anni il ciclismo si è ritrovato a fare i conti con i suoi demoni. Demoni che avevo tanti nomi e tanti volti ma che finivano sempre per fare rima con la parola doping. Erano anni complessi dove chi gestisce il ciclismo, l’Uci, si è arrogato la parte del buono, del cavaliere errante senza macchia e senza paura che lotta contro i cattivi, che altro non sono che bari e truffatori, oltre che drogati, ossia i corridori.

Il ciclismo aveva rischiato il collasso per sfiducia generalizzata. È sport, uno sport nel quale le gambe dei corridori vanno a benzina? Non era così, o almeno così semplice e lineare, ma questo è passato, questo l’Uci ha contribuito a fare passare. E pur di salvare la baracca, pur di dimostrare che non tutto era doping e non tutti erano dei bari e truffatori, i ciclisti hanno accettato quello che gli era stato silentemente imposto: totale trasparenza e totale disponibilità a essere controllati. Il passaporto biologico è stata una riforma importante che ha permesso al ciclismo si ripartire con alte basi di credibilità, anche se qualche curiosità giornalistica continua a insistere sui demoni come se poco o nulla fosse cambiato.

I corridori hanno accettato tutto, hanno fatto del loro meglio per assecondare le indicazioni, leggasi obblighi, di chi governando il ciclismo da quando i demoni imperavano, voleva ripulirlo dagli stessi demoni che aveva non visto o non voluto vedere.

Se i corridori hanno fatto tanto per il ciclismo e per chi il ciclismo lo gestisce, l’Uci, l’Uci se ne è fregata alla grande dei corridori, della loro sicurezze in corsa. Spesso il problema passa sotto traccia, anche se di pericoli evitabili se ne vedono in tutte (o quasi) le corse. Ogni tanto invece il problema torna fuori e a farlo tornare fuori è sempre una brutta storia, storie che solo per fortuna o per caso, sempre fortuna e caso esistano davvero, non si concludono tragicamente. La più plateale e drammatica andò in scena al Giro di Polonia del 2020, quando Fabio Jakobsen rischiò di morire in seguito a una caduta a pochi metri dall’arrivo. Allora la colpa di tutto fu data a Dylan Groenewegen, che di colpe, sia chiaro, ne aveva, ma se non ci fossero state le nefandezze dell’organizzazione avrebbe avuto un esito ben diverso: com’è possibile posizionare l’arrivo di una tappa che doveva finire in volata al termine di un tratto in discesa velocissimo, a lato dei binari, e con delle transenne non ancorate al terreno?

Alla Vuelta Burgos non c’era un Groenewegen a cui dare tutta la colpa, perché nessuno, a 470 metri dall’arrivo ha compiuto una scorrettezza. La caduta però c’è stata e ha coinvolto una gran parte del gruppo. In piedi sono rimasti in pochi, molti sono finiti a terra, tanti si sono fatti male, in otto non sono partiti il giorno dopo per la terza tappa.

A causare il patatrac è stata la caduta di un corridore della Jumbo-Visma che stava, con i compagni, preparando la volata. Il gruppo scendeva a sessanta all’ora, la strada era larga, ma il gruppo si è trovato davanti a un dosso, che a quella velocità può essere un problema. Un dosso che era segnalato da due uomini solo in prossimità dello stesso, non prima, magari di qualche centinaio di metri, come sarebbe stato di buon senso fare. Solo quella segnalazione che a sessanta all’ora e a meno di cinquecento metri dall’arrivo non è così scontato vedere. La caduta del corridore della Jumbo ne ha causate altre a catena, uomini che sono volati a terra, addosso alle transenne che si sono aperte, perché, anche in questo caso, non ancorate al suolo. Poteva andare peggio, molto peggio.

I dossi esistono perché le strade, una gran parte di esse almeno, sono in balia della velocità degli automobilisti. Sono una forma di prevenzione contro la dittatura delle automobili, per preservare la vita delle altre persone. Il ciclismo scorre per strade aperte al traffico ordinario, che portano con loro tutti i problemi della (in)civiltà di tutti i giorni. Ci si può far niente, si è portati a pensare. Eppure non è vero, qualcosa si potrebbe fare. L’Uci, che ha preteso e imposto ai corridore, e pure giustamente, totale trasparenza e totale disponibilità a essere controllati, dovrebbe usare lo stesso polso ferreo con gli organizzatori, oppure dovrebbe controllare almeno che non ci siano pericoli eccessivi per chi in bicicletta continua, nonostante tutto, a impegnarsi per portare avanti questo sport e renderlo magnifico.

È troppo chiedere a chi dovrebbe garantire la sicurezza dei federati, di garantire loro sicurezza? È troppo chiedere a a chi dovrebbe garantire la sicurezza dei federati di impegnarsi affinché vengano escluse dagli ultimi chilometri di gara pericoli non necessari?