
Peter Sagan è uscito dal gruppo?
04/10/2023Peter Sagan si è ritirato, eppure qualcosa di lui è rimasto nel ciclismo e sarà difficile, impossibile?, cancellarlo
Era l’undici luglio del 2018, il Tour de France faceva tappa a Quimper. E lì, nel quartiere di Kerfeunteun, il più alto della città bretone, affianco al complesso sportivo di Penvillersè, vinse Peter Sagan, precedendo in volata Sonny Colbrelli e Philippe Gilbert su di una strada che rognosa tirava all’insù. In quell’edizione aveva già vinto a La Roche-sur-Yon, avrebbe vinto anche dopo, a Valence.
Quel giorno, Peter Sagan vinse facile, per manifesta superiorità.
Quel giorno ero a bordo strada, tra il pubblico, un pubblico bretone in grande maggioranza che esultò alla vittoria di Peter Sagan come si fa per il successo di un proprio connazionale. Vale meno il passaporto nel ciclismo rispetto agli altri sport, si sente meno il trasporto della nazionalità, ma c’è, è presente, non si può negarlo. Ovunque, in Francia e in Italia soprattutto.
Tanto affetto per un corridore straniero non l’avevo mai sentito. L’ho percepito quel giorno, l’ho percepito negli anni successivi ogni volta che mi sono ritrovato a bordo strada a vedere passare i corridori e Peter Sagan era in gruppo. Era come se lo slovacco fosse in realtà sia francese che italiano che tedesco, di ovunque. Che fosse patrimonio di tutti
Ciò che mi colpì maggiormente quel giorno non fu però la sua vittoria o il grande affetto francese per Peter Sagan. Ciò che mi colpì maggiormente accadde dopo, a corsa finita, quando Peter Sagan era già stato prelevato dagli energumeni dell’organizzazione per essere condotto al podio e a tutto quello che c’è prima e dopo il podio: il cerimoniale del Tour de France è lungo, metodico, organizzatissimo.
Quel giorno tra il pubblico c’era un bambino con addosso la maglia di campione del mondo marchiata Bora-hansgrohe, quella di Peter Sagan. Era felicissimo della vittoria del suo idolo mentre con il padre correva verso la zona dopo il traguardo, lì dove i corridori si fermano e vengono condotti nella zona delle premiazioni.
Fu lì che il padre prese in braccio il bambino e il bambino iniziò a sbracciarsi a chiamare Peter Peter Peter. Peter Sagan era lì a qualche metro di distanza, già preso in carico da un’energumeno dell’organizzazione. Il vociare era molto, le grida tante, il suo nome parecchio usato. L’energumeno gli diceva di affrettarsi. Peter Sagan si voltò verso la folla e nella folla intravide quel bimbo che si sbracciava. L’energumeno lo cercò di trascinare verso la zona premiazioni. Peter Sagan però si fermò, gli fece cenno di attendere un attimo, che aveva altro di meglio da fare che seguirlo. Salutò quel bambino che si sbracciava, chiese scusa per il fatto che non poteva avvicinarsi, gli soffiò un bacio dalla mano, poi lo salutò ancora.
Fu quella la prima volta che vidi fare una cosa del genere a un corridore.
Una cosa da niente forse, ma non per quel bambino. E nemmeno per il ciclismo.
Ora che Peter Sagan si è ritirato, che a La Roche-sur-Yon, nella stessa città tristanzuola dove aveva vinto tre giorni prima di quel giorno, ha compiuto le sue ultime pedalate su di una bicicletta da corsa (continuerà con la mountain bike, sperando di poter festeggiare a Parigi la medaglia olimpica che non ha mai vinto), mi è ritornato in mente questo episodio. Che è un episodio piccolo, minuscolo, nella carriera di Peter Sagan.
Perché Peter Sagan è stato un campione eccezionale di questo sport. Per le vittorie innanzitutto: 121 e tra queste tre Mondiali di fila, un Giro delle Fiandre e una Parigi-Roubaix. Soprattutto per quella capacità di essere vicino, prossimo, a chi il ciclismo piace vederlo dal bordo della strada.

Il ciclismo era lo sport della vicinanza, l’unico che ti passava sotto casa. In parte è ancora così. In parte no, è cambiato tutto. È da decenni che attorno ai campioni hanno eretto un muro difficilmente valicabile. È da anni che questo muro ha iniziato ad essere costruito anche attorno ai loro allenamenti, spesso isolani, senz’altro molto più lontani di un tempo da noi corridori della domenica.
Peter Sagan questo muro è stato capace se non di abbatterlo, sarebbe eccessivo pensarlo e scriverlo, quantomeno di renderlo un filo più basso, dare la sensazione che fosse scavalcabile.
Pure nei momenti peggiori, quando qualcuno aveva avanzato la certezza che fosse ormai agli sgoccioli del suo talento, Peter Sagan questo muro ha sempre cercato di tenerlo il più basso possibile.
Forse anche per questo che gli appassionati, una grande maggioranza degli appassionati, gli ha voluto bene, ha gioito e sofferto con lui. Per quella gioia di andare in bicicletta, per quei sorrisi che non negava mai, per quel suo essere guascone e mattatore anche quando tra lui e i primi c’erano decine di minuti. Non è stato il solo a farlo. È stato però tra i pochi con in casa decine e decine di premi.
C’era nessuno come Peter Sagan prima di Peter Sagan. E nemmeno ora. Quantomeno però ora c’è un ricordo, quello di un campione tanto forte quanto umano, con le sue straordinarietà e le sue debolezze, che è stato capace di ricordarci come la bicicletta sia gioia, grande gioia e non, come è stata raccontata per decenni e decenni solo sofferenza.
E quella gioia è diventata coinvolgente, contagiosa. Quella gioia è la stessa che si riflette negli occhi e nel sorriso di Tadej Pogacar, di Cian Uijtdebroeks, di Cecilie Uttrup Ludwig.
Forse è vero che non c’è e non ci sarà un altro Peter Sagan, eppure qualcosa di lui è ancora e rimarrà in gruppo.