Pogacar, Roglic e le affinità elettive

Pogacar, Roglic e le affinità elettive

15/03/2022 0 Di Giovanni Battistuzzi

C’è un filo che unisce il Monte Carpegna e il Col de Turini che parte da Pantani e Vietto e che Pogacar e Roglic hanno contribuito a svelare. Il ciclismo e le affinità elettive


Gli occhi di lui guardano dietro e vedono il vuoto, si godono quella solitudine che è privilegio, un composto organico di forza, o quantomeno di dimostrazione di, e tranquillità.

Gli occhi dell’altro non godono della stessa prerogativa. Ma tant’è. Sa benissimo che non gli serve il vuoto, non ora almeno. Servirà altrove e in seguito, ma lì non è necessario. È augurio futuro.

Lui e l’altro sono distanti, lontani centinaia e centinaia di chilometri. E forse nemmeno si pensano, forse il nome dell’altro non rintocca nella sua testa. E così vicendevolmente. Ma c’è. E per entrambi. C’è, sotto sotto, coperto dall’assenza di pensieri asfittici dono della fatica, da quella dolce e oppioide sensazione di quiete che allontano lo spleen.

La geografia non sempre conta. Lo spazio è componente malleabile, esiste, ma può essere manipolato, può accorciarsi o estendersi, fregarsene di quello che c’è, rimodularsi in funzione di quello che trova. È fatto come tutto di molecole, di elementi. Una questione di energia libera. Questione che due elementi associati, sotto l’azione simultanea di altri due dotati di particolari proprietà, possono scindersi, associarsi di nuovo.

Vale per gli elementi, vale, almeno secondo Wolfgang Goethe per le persone. Affinità elettive le ha chiamate.

Questo rapporto sarà diverso secondo la diversità della natura dei corpi. Ben presto essi s’incontreranno come amici, come vecchi conoscenti, che stanno insieme, si associano senza per nulla modificarsi l’un l’altro, come si mescolano l’acqua e il vino. Altri, invece, rimarranno estranei, uno accanto all’altro, e non si lasceranno fondere in alcun modo, nemmeno mescolandoli e sminuzzandoli con mezzi meccanici; così l’olio e l’acqua che, agitati insieme, tornano immediatamente a separarsi“.

Pogacar Roglic e le affinità elettive

Tadej Pogačar alla Tirreno-Adriatico ha scompaginato le ambizioni di tutti i rivali, ridotto le speranze di chi gli era attorno, o meglio dietro, impegnato in un tentativo di recupero che sapeva benissimo era impossibile da realizzare.

Sabato sul Monte Carpegna ha dilatato le distanze, soprattutto addolcito una salita che per molti, Remco Evenepoel in primis, si è dimostrata indigesta.

Vedendolo ascendere verso la cima si palesava una domanda: c’è qualcuno in grado di metterlo in difficoltà? o quanto meno di dargli qualche grattacapo?

Lo stesso giorno, più o meno alla stessa ora, ma a seicento chilometri di distanza, lasciati gli Appennini e incontrate le Alpi, Primož Roglič, alla Parigi-Nizza, muoveva i pedali allo stesso modo del connazionale. Al suo fianco altre figure tenevano la scena, non gliela concedevano pienamente.

Dettagli di poco conto, soprattutto perché, a un passo dal finale, dalla linea d’arrivo, un barlume di vuoto si impossessava della scia del corridore della Jumbo, quasi fosse un messaggio, un potevo ma non ho voluto, sono cambiato, ma nemmeno tanto.

Lui e l’altro sanno che la solitudine di oggi potrebbe essere una comunione futura. Sanno soprattutto che l’oggi potrebbe non essere il domani, non almeno allo stesso modo. Che si ritroveranno assieme, affiancati, pronti a ribadire, l’uno all’altro, la propria legge. Che mai è inclusiva, ma esclusiva di principio. O io o te. Nessuna mediazione.

Sanno che esiste un’affinità elettiva che potrebbe allontanarli, fargli scindere per associarsi di nuovo.

La stessa affinità che lega i luoghi nei quali hanno imposto la loro legge sabato.

Perché c’è un filo invisibile, o se non invisibili quantomeno trasparente e fugace, che lega il Col de Turini al Monte Carpegna. Il primo esclusiva delle Alpi, il secondo degli Appennini. Il primo sinuoso ed elegante, il secondo schivo e nascosto, ma per serpentone d’asfalto, mica per orogenesi e impatto visivo.

Il Col de Turini e il Monte Carpegna sono distanti e diversi eppure una stessa cosa. Un racconto provinciale e secondario che si muove ai confini del romanzo ciclistico, fuori dalle mappe della grande epica montana. Eppure centralissimi, intrisi di un amore e di una passione personale divenuta conosciuta, non famosa, al massimo notoria.

Il ciclismo e le affinità elettive

“Il Carpegna mi basta”. Marco Pantani non aveva bisogno d’altro, solo di incrociare sotto le ruote la strada di quel monte corto e secco, dimenticato eppure inconfondibile. Perché il Carpegna ti appare davanti e non puoi non riconoscerlo. Sta lì solitario e rugoso davanti a te, lampante come quelle quattro parole: “Il Carpegna mi basta”.

E bastava davvero a Marco Pantani. Si alzava sui pedali e lo divorava metro dopo metro e se arrivato in cima sentiva la gamba che non dava problemi, voleva dire soltanto una cosa: che la gamba era buona davvero e che non c’era Stelvio o Mortirolo, Alpe d’Huez o Galibier che poteva affaticarla più del dovuto.

E sì che il Giro d’Italia lì ci era finito solo due volte, nel 1973 e nel 1974, giusto il tempo di vedere Eddy Merckx prima disintegrare tutti e poi rischiare di disintegrarsi nel tentare di trattenere a sé l’anima montana di José Manuel Fuente. Fu nonno Sotero a raccontare a un giovane Marco che lì, su quella montagna dimenticata dal Dio del ciclismo, un Cannibale era stato preso a schiaffi da un uccellino solitario.

Una storia che ne riporta a un’altra, andata in scena sessant’anni prima e a seicento chilometri di distanza. E senza neppure l’intercessione di Eddy Merckx.

Il Col de Turini è un’altro diseredato del grande ciclismo. Il Tour de France gli ha concesso spolvero solo nel 1948, nel 1950 e nel 1973.

René Vietto nel 1948 aveva 34 anni e già più che un’idea di ritiro in testa. L’aveva messo in cantiere alla fine del 1947, ne era sicuro. L’avrebbe fatto se Jacques Goddet, il patron del Tour, non gli avesse detto di aspettare, che la Grande Boucle sarebbe passato per casa sua. E non si riferiva a Le Cannet, ma alla casa che s’era scelto, quel posto nel mondo al quale non avrebbe mai rinunciato: il Col de Turini. Le Turini est tout, mi basta salire su quel colle per capire come andranno le cose.

René Vietto “è stato il più sublime interprete della scalata in bicicletta, un grimpeur meraviglioso, talmente eccezionale che il ciclismo lo ha respinto”, scrisse di lui Antoine Blondin.

René Vietto al Tour de France del 1939
René Vietto al Tour de France del 1939 (foto Wikimedia Commons)

C’era sempre qualcosa che impediva a Le Roi René di vincere una grande corsa. Una caduta, un’ape, una bronchite… qualsiasi cosa. Eppure c’era stato, almeno sino a Raymond Poulidor, nessun corridore capace di entrare nel cuore di Francia come René Vietto. “C’è niente di più simile a un’opera d’arte che l’incedere sinuoso e danzante di Vietto in salita”, scrisse il pittore e poeta Jean Metzinger.

René Vietto lasciava Le Cannet, e si muoveva verso l’Italia per salire in cima a quel monte che era tutto, che a lui bastava come a Marco Pantani bastava il Carpegna.

In un sabato di marzo, gli occhi e le gambe di Tadej Pogačar e Primož Roglič hanno unito ciò che la geografia aveva tenuto lontano. Le affinità elettive funzionano così.