
Pura gioia. Quando Fausto Coppi conquistò il Sestriere al Tour
06/07/2021 0 Di Giovanni BattistuzziIl 6 luglio del 1952 si corse l’11esima tappa del Tour de France, la Le Bourg-d’Oisans – Sestriere di 182 chilometri. Prima dell’arrivo in salita (il secondo della storia alla Grande Boucle – il primo fu quello all’Alpe d’Huez di due giorni prima, anche quello conquistato da Fausto Coppi) al Sestriere i corridori dovevano scalare Croix de Fer, Galibier, Monginevro. Il racconto di quel giorno è contenuto nel libro “Alfabeto Fausto Coppi“, scritto con Gino Cervi e illustrato da Riccardo Guasco.
Era convinto di andar forte, di giustificare con le sue pedalate il nomignolo che non sapeva chi, un giorno, gli avesse affibbiato: l’Angelo delle Alpi. Sarà stato per lo sguardo timido, sarà stato per quella nuvola di ricci che aveva in testa, o forse per il suo volto da san Giovanni evangelista. Lui angelo però non si sentiva, al massimo un buon diavolo.
Si era girato e non aveva visto nessuno alle spalle, solo la macchina della direzione di corsa, solo i tifosi a bordo strada che al suo passaggio gridavano il suo nome: “Allez Jean!”. Avrebbe conquistato il tetto del Tour de France, poi, chissà, magari pure la tappa, mica male vincere al di là del confine, bel colpo sarebbe stato battere Coppi e Bartali a casa loro.
Si alzò sui pedali, diede una piccola accelerata e si stupì di tanto entusiasmo. Che strana euforia, nemmeno avessi la maglia gialla, disse tra sé e sé.
L’illusione svanì, arrivò lo sconforto.
La maglia gialla apparve davvero, Fausto Coppi lo affiancò e senza nemmeno degnarlo di un’occhiata lo sorpassò. Jean Le Guilly provò a prendergli la scia, a tenergli il passo, ma non ci fu nulla da fare. In poche centinaia di metri l’italiano divenne una macchia di colore sulla strada colorata di gente del Galibier. Non l’avrebbe più visto, non avrebbe vinto e neppure raggiunto per primo la sommità del monte.
Coppi intanto non smetteva di tirare il collo alla sua bicicletta. Era quello l’unico modo per stare tranquillo. Avevano provato ad attaccarlo tutti: spagnoli e francesi, belgi e regionali. Ogni scatto altrui era un inseguimento di Sandrino, di Fiorenzo, pure il Gino si era messo in testa. E per uno che rientrava nei ranghi, un altro cercava di uscirne. Tutti quei cambi di ritmo lo snervavano, gli facevano passare la voglia di pedalare. Si era innervosito a tal punto che si era in messo in testa lui, aveva accelerato, era rimasto solo. Già che c’era aveva continuato. Pedalava come piaceva a lui, tra i suoi pensieri, solo al comando. L’Italia era là vicino, Binda gli aveva detto che sarebbe stato il caso di dare una soddisfazione alla gente e lui aveva pensato che miglior soddisfazione non ci fosse che un arrivo solitario. Certo avrebbe preferito attaccare sul Monginevro, così tutti potevano vederlo fuggire. Era andata diversamente, poco male.
Eccola la dogana, ecco l’Italia, la sua gente. La strada si era trasformata in un sentiero in un bosco di facce, di braccia, di grida, ma non Fostò questa volta, Fausto.
Una bolgia alpina lo avvolgeva, lo stringeva in una viuzza d’asfalto colorato di scritte e di giubilo. W COPPI e pure in tre colori: verde, bianco e rosso, un lusso concesso a pochi. Sulle moto ora c’erano i carabinieri, i gendarmi erano rimasti al di là del confine. E avevano un gran bel da fare a contenere la folla, uno iniziò pure ad agitare un manganello, ma in aria: minaccia, non violenza.
Coppi pedalava per la strada che portava al Sestriere e non la riconosceva. Il suo orizzonte era prossimo, attaccato al naso ed era un orizzonte febbrile, di urla, di incitamenti, di mani plaudenti, di evviva, di sorrisi a denti storti. I paracarri erano podi, i prati accanto alla carreggiata tribune gremite sino all’ultimo centimetro. Lo striscione d’arrivo sovrastava un muro di persone. Una catena umana di carabinieri cercava di arginare tutto quel caos. Ma non c’è argine all’acqua: quando è troppa straborda e non c’è modo di fermarla. Il suo passaggio sotto il traguardo fu il sasso che provocò lo straripare di uomini e di donne. Lo accerchiarono, lo baciarono, lo toccarono, lo palparono, lo ringraziarono, lo stritolarono, lo incitarono, lo azzannarono.
Un fischio e altre mani arrivarono, ma erano mani toste e forti, graduate, mani che afferravano, che tiravano, che spostavano, che riordinavano. Mani che erano minacce, che scortavano Fausto direttamente in albergo. La folla lo chiamava da fuori, l’avrebbe voluto per sé.
Fausto si sedette, sorrise ad Alfredo Binda: “Pensavo di non farcela a uscire da quella morsa. Non ho mai visto una montagna così affollata. Meno male che c’erano i carabinieri”.
Sempre da “Alfabeto Fausto Coppi” è tratto il racconto sull’incontro tra l’Airone e Totò che potete leggere qui