
Quel che resta di Vincenzo Nibali
09/10/2022Era da mesi, da maggio, che si sapeva che Vincenzo Nibali avrebbe smesso di correre, che sarebbe passato in un attimo, al termine di una gara qualsiasi da lì all’autunno, da corridore a ex corridore.
C’ho mai pensato in tutti questi mesi, cinque, al giorno nel quale Vincenzo Nibali sarebbe uscito dal gruppo, dalle nostre vite ciclistiche.
C’ho pensato nemmeno ieri, prima che partisse il Giro di Lombardia, ormai per brevità e antonomasia chiamato Il Lombardia. La brevità è ormai diventato un vizio, non più una virtù. E c’ho pensato nemmeno nel pomeriggio, quando ormai tutto era finito, la corsa ma non solo la corsa, e Tadej Pogacar aveva vinto il suo secondo Giro di Lombardia. Ho pensato solo che ormai la stagione era quasi finita, che sarebbe toccato aspettare un po’ prima di rivedere l’asfalto accogliere lo scorrere delle ruote delle biciclette, almeno quelle più veloci. Il momento nel quale avrei iniziato a guardare più ciclocross.
C’ho iniziato a pensare oggi. Perché certe cose appaiono per quello che sono in ritardo. Con il giusto tempo. Come certi vini che hanno bisogno di un po’ d’ossigeno per farteli apprezzare. Ché magari li odori e li fai passare tra lingua e palato subito e ti dicono niente, ti infastidiscono pure un pochino, a tal punto di pensare di aver fatto una scelta sbagliata. Poi però bevendoli, col tempo sufficiente, ecco che ti stupiscono, ti fanno dire beh, e qualche parolaccia, che quando si ripensa alle cose, agli errori di valutazione, esce sempre qualche parolaccia.
Sono mai stato tifoso di Vincenzo Nibali. E non perché non se lo meritasse, se lo sarebbe meritato. Sono mai stato tifoso di Vincenzo Nibali perché dieci anni o giù di lì erano troppo pochi per curare un cuore e una coscienza ciclistica che avevano detto, un giorno, non farci più del male. Marco Pantani era stata una passione enorme, totalizzante, un battito che aveva dettato il ritmo all’altro battito, quello che ci portiamo dentro da sempre. Dopo Marco Pantani non me la sono sentita di ridiventare tifoso.
Poi era entrata la vita, le scelte, le necessità.
M’avevano detto che era meglio vedere le cose da lontano, dall’esterno, se si voleva fare il mestiere di giornalista. Per anni ho seguito i consigli, poi me ne sono fregato dei consigli. Sono tornato a vedere le cose da dentro, a giudicare le cose da un punto di vista interno, interno a me.
Era però ormai troppo tardi per tifare un corridore. Ho iniziato a voler bene a una categoria di corridori, tutti quelli che avevano il dono di avere la testa dura e inseguire l’intuizione di un momento. C’entrava, c’entra, niente la nazionalità, il passaporto, fanno tutti parte di una nazione nuova, quella di chi sa fare i conti con l’aleatorietà del ciclismo, che comprende che c’è niente di lineare in una corsa e che si vuole stringere qualcosa serve avere la forza di fregarsene di chi sostiene che tanto finirà in un certo modo, che c’è nulla da fare contro l’apparente superiorità degli altri.
Vincenzo Nibali rientrava in questa categoria.

Vincenzo Nibali non era il più forte della sua generazione. Non era il più forte in salita, non era il più forte a cronometro, non era il più forte sul passo e nemmeno in volata. Era tra i più forti in discesa, quello sì, ma la discesa è cosa difficile da far amare a quegli appassionati di ciclismo che pensano che ritengono che un arrivo in salita sia il massimo della vita. Sono la maggioranza.
Vincenzo Nibali non era il più forte, ma è sempre riuscito a fregarsene del come tutto dovrebbe andare e ha fatto in modo di far andare le cose come a lui sarebbe piaciuto andassero. Mica roba da poco. Ce la fanno in pochi, di solito li si chiama campioni, almeno nello sport. Si vince mica un Tour de France, due Giri d’Italia, una Vuelta di Spagna, due Lombardia altrimenti. Non si vince soprattutto una Milano-Sanremo, a quel modo poi, quello di Nibali, incerto, a tratti disperato, del tutto inaspettato.
Mi è tornata in mente quella Milano-Sanremo, quella del 2018. Quello scatto in salita verso Poggio, quella planata veloce e meravigliosamente precisa verso il mare.
Mi è tornata in mente quella Sanremo e la seconda tappa del Tour de France del 2014, quella che terminava a Sheffield.
Ce ne sarebbero stati altri e incredibili di ricordi. Come la ventesima tappa del Giro d’Italia del 2013, quella che terminava appena sotto le Tre Cime di Lavaredo. Oppure la diciannovesima del Giro del 2016, quella che terminava a Risoul, che Nibali ribaltò verso la cima del Colle dell’Agnello e poi giù dal passo verso fondovalle, mentre Steven Kruijswijk in maglia rosa si ribaltava sulla neve; quella del “sacrificio” di Michele Scarponi. C’ho pensato dopo ripensando a questi anni, anni nei quali ho avuto la fortuna di poter raccontare le vittorie e le sconfitte di Vincenzo Nibali.
I miei ricordi però sono andati a Sanremo e a Sheffield. E ci sono andati perché solo oggi mi sono accorto cosa da domenica, dopo l’arrivo del Giro di Lombardia, non ci sarà più.
Sanremo e Sheffield sono i luoghi, non i soli, ma forse quelli più significativi, nei quali Vincenzo Nibali mi, ci, è apparso per quello che era davvero. E forse lo sapevo da sempre, da allora, ma c’avevo mai fatto caso davvero.
Vincenzo Nibali ha sempre avuto il dono dell’inaspettato. Un’epifania. E c’entra niente il divino. Era umano, umanissimo. Un’epifania umana, umanissima. Che si faceva forza della dolcezza e della tranquillità, qualcosa di assolutamente raro in un mondo, quello sportivo, animato da spirito di conquista, spesso di rivalsa, e di una fame di imporre se stessi a tutto il creato. Vincenzo Nibali sembrava avere nulla a che fare con tutto questo. E poco importa che parte di tutto questo lo portasse con sé, correva e vinceva, ma lo portava con sé con grazia cheta, con serenità. Lottando però, con la testardaggine di chi sa che quasi mai conta la fantasia, che molto spesso non è questione di forza, ma che ci vuole soprattutto la convinzione che può mica piovere per sempre e se esce il sole tocca farsi trovare pronto. E menare, se serve, per vedere primo il sole.
Vincenzo Nibali appariva. E cambiava il canovaccio che tanti, i più, s’aspettavano andasse in scena. C’era mai qualcosa di scritto davvero, di veramente inattaccabile, quando correva Vincenzo Nibali. Rimaneva quella speranza che in un modo o nell’altro qualcosa potesse accadere. Molte volte questa speranza rimaneva sospesa, volteggiava nei mille poteva essere se che animano lo sport. Quando però si materializzava usciva da quel caos che solo certi uomini o donne sanno domare e sfruttare a proprio favore.
Anche quando era l’uomo da battere, Vincenzo Nibali trovava il modo di evitare che tutto fosse scontato.
Ho pensato a questo questa mattina. Ho pensato che era inutile pensare a oggi, a domani, al prossimo anno e via così. Ho pensato che in fondo è andata bene così, perché le corse di Vincenzo Nibali le ho assistite in diretta, senza la costrizione del sapere già come andrà a finire. Non mi è poi andata male. Non ci è andata male. Soprattutto che la malinconia era tanto inutile quanto la nostalgia.
Perché andrà alla grande ancora, perché questi anni promettono d’essere fantastici, per merito di un manipolo, più di un manipolo, di giovani uomini che hanno già pensionato ciò che è stato, cambiato pagina, imposto il loro modo di vedere il ciclismo e correre. L’epoca di Vincenzo Nibali si era conclusa, il suo sguardo dolce non lo vedremo più in gruppo, quello che rimarrà è il ricordo di un campione che ha fatto cose straordinarie, con gentilezza non comune. E alla gentilezza spesso non le si dà l’importanza che merita.