La Sei giorni di Berlino è un salto nel tempo

La Sei giorni di Berlino è un salto nel tempo

31/01/2023 0 Di Giovanni Battistuzzi

Jackydelcampo contò i denti della guarnitura, respirò profondamente, scosse la testa.

Il problema non è la bici, è che non c’hai le gambe, disse.

Ricontò i denti.

Se fai fatica con questa corona figurati con quelle vere, quelle da pista. Lascia stare che è meglio, il tuo sport è il calcio, va bene così, sentenziò.

Jackydelcampo avrebbe mica voluto fare il guardiano di un campo di calcio, avrebbe voluto fare il guardiano di un velodromo, anzi del Vigorelli, perché il Vigorelli è più di un velodromo, diceva, è un tempio magico, un luogo che non ce ne è così nessun altro al mondo. E sosteneva questo perché ne aveva viste tante di corse, di velodromi e di bici, diceva.

Quella era invece la prima volta che noi novizi del mondo vedevamo una bici da pista.

Lui no. C’aveva corso sulle biciclette che non potevi mai smettere di pedalare e che non avevano nemmeno la grazia dei freni, diceva. E aveva visto pure le Sei giorni (qui il dizionario minimo per capire cos’è una Sei giorni, come funziona e altre cosette varie). E le Sei giorni per noi novizi del mondo sembravano un universo parallelo, qualcosa tipo mondo di Oz o robe del genere. E anche se al campo Jackydelcampo veniva pedalando una bici olandese parecchio scassona ogni sua parola, sulle bici, era precisa e appassionata tipo quelle che leggevamo sui giornaloni.

Avrei voluto anch’io andare a una Sei giorni, a quella di Milano, che era tornata, l’aveva detto pure la tele. Nessuno mi ci portò mai fino a Milano, ché era distante e soprattutto, ma mi fu chiaro dopo anni, gliene fregava assai poco a tutti del ciclismo su pista e quelle ore e ore a vedere le bici girare sull’ovale sarebbe stato per i miei genitori cosa insopportabile.

Strano.

Perché Jackydelcampo aveva detto sempre che il ciclismo del Giro d’Italia era un ciclismo che ti passava sotto casa, che ti investiva, per questo semplice e immediato. Il ciclismo su pista invece lo si doveva andare a trovare e quindi c’era più amore, ché i velodromi non sono mai fuori dalla porta, a meno di non abitare in via Arona a Milano.

Jackydelcampo puliva gli spogliatoi, sistemava le magliette, i conetti, i palloni e raccontava di personaggi che erano più che uomini, esseri nuovi col busto da uomo e con la bicicletta che era un tutt’uno con il resto del corpo. E doveva essere proprio così perché altrimenti non si poteva spiegare di un uomo che riusciva a stare mezz’ora in equilibrio sui pedali su di una pista che aveva una pendenza che nemmeno il rivon de Collalbrigo. Il rivon de Collalbrigo era all’epoca, per noi novizi del mondo la prova suprema delle nostre abilità di scalatori. E poco importa fosse uno strappetto – dietro casa nostra –, nemmeno troppo irto, per noi era qualcosa tipo il Mortirolo.

Antonio Maspes era il più bravo di tutti a stare fermo in equilibrio sulla bicicletta senza mettere mai i piedi per terra, diceva Jackydelcampo. L’aveva visto a Bassano del Grappa stare in surplace per oltre mezz’ora spalla a spalla con Vanni Pettenella in un silenzio semi assoluto, pieno di tensione perché tutti allora sapevano benissimo quello che stavano facendo i due e apprezzavano l’attesa, quasi fosse il più bel regalo che potevano concedere loro quei due.

Mica roba da tutti il surplace.

La Sei giorni di Berlino

Anton Höhne e Tomas Babek ci hanno provato sabato 28 gennaio alla Sei giorni di Berlino 2023 a fare quello che facevano Antonio Maspes e Vanni Pettenella. Sono rimasti un po’ fermi sui pedali, ma il secondo ha mollato dopo poche decine di secondi. Spallata al primo e via di nuovo a pedalare. Fa quasi più nessuno il surplace nella Velocità, perché non c’è più tempo per il surplace nella Velocità. I tempi ora sono parecchio ristretti perché quello della Sei giorni si è ristretto: sei sere quando va bene. Quest’anno a Berlino la Sei giorni era di tre giorni, ma tant’è. Spettacolo ridotto per giorni e tipologia di corse, ma ai tedeschi piacciono le cose pratiche e dopo due anni senza Sei giorni andava bene pure il formato ridotto. L’importante che ci fosse.

Era già saltata una volta la Sei giorni di Berlino. E a lungo: dal 1991 al 1996. Se ne erano quasi accorti allora, ma erano anni nei quali la bicicletta era cosa da DDR e si voleva voltare pagina. Dissero che la Deutschlandhalle era diventata inagibile e buttarono giù pure la Werner-Seelenbinder-Halle, che a Est era d’inverno la casa del ciclismo. Si accorsero subito però che Berlino senza velodromo non poteva stare e così ne costruirono uno nuovo, il Velodrom.

E capirono pure che Berlino non poteva stare senza Sei giorni. Finito il Velodromo tornò pure la Sei giorni di Berlino. Che non è mai stata quella di Gent, c’è nessuna Sei giorni come quella di Gent, ma era tanta roba lo stesso: tutto esaurito e un consumo medio di birra, negli anni Ottanta, di quasi due litri a persona. Almeno a Ovest, perché di Sei giorni a Berlino, quando c’era in Muro, ce ne erano due. E chi le ha viste entrambe, come il pittore Heinrich Ehmsen, disse che “a Ovest c’era il meglio del ciclismo su pista mondiale, a Est c’era il meglio del ciclismo su pista sovietico e della DDR che era il meglio del ciclismo su pista mondiale”.

Si sta bene al Velodrom. So mica come siano gli altri, quelli ancora più moderni, ma al Velodrom si sta bene e si vede bene. E il vorticare delle biciclette è un gran bel vorticare, pure se ci sono tre giorni in meno.

Perché, come diceva Jackydelcampo, una Sei giorni la si può vedere in tivù e in tivù ci si può pure appassionare. Ma vale un cazzo la Sei giorni in tivù se si ha avuto l’occasione di vedere una Sei giorni dal vivo.

Jackydelcampo diceva che era una questione d’odore. All’epoca però gli stayer guidavano motociclette, ora bici elettriche parecchio potenti. E i muscoli dei corridori sapevano di canfora e arnica.

Al Velodrom l’odore è quello di birra, currywurst, detergenti industriali, polvere e aria condizionata riscaldata. A volte di ascella, ma non è quella dei corridori, e può accadere ovunque, non solo a Berlino.

È mica questione di odori una Sei giorni, ma di suoni. La musica mixata direttamente dalla tribuna centrale, in quel incessante alternarsi tra dance di dubbio gusto, classiconi anni Ottanta, qualche brano italiano che in Germania piace sempre, e intermezzi techno d’altri tempi. Poi lo sfregolio degli pneumatici sul parquet, quando la musica e le urla del pubblico si prendono una pausa. E musichetta d’organetto da fischiettare a comando quando al vincitore di una prova viene concesso i giri d’onore. Infine gli hop di donne e uomini prima di darsi il cambio all’americana. Mano sinistra che prende la mano destra del compagno che fa da rampa di lancio. Farla bene è un’arte.

Per godersi la musica vera, quella che non riesce a entrare nella tivù e che mai non riuscirà a entrare, però serve avvicinarsi alla balaustra della pista. Un vibrio musicale che intona quelle note che danno al legno le ruote dei corridori.

Do basso quando pedala Robert Förstemann, spingendo la bici con la forza di quelle sue cosce che fanno provincia, o meglio Land visto che siamo in Germania. Un La quando corre gente come Roger Kluge. Kluge è nato a Eisenhüttenstadt, Brandeburgo, e da piccolo gliene fregava niente di vincere al Tour de France o nelle classiche del Nord o chissà dove, sognava di vincere la Sei giorni di Berlino. Con quella che si è conclusa domenica 29 gennaio è salito a quattro vittorie: la prima nel 2011 Robert Bartko (uno tra i migliori seigiornisti degli anni Duemila e forse non solo degli anni Duemila), la seconda con Peter Schep nel 2013, la terza nel 2019 con l’attuale compagno di avventura: Theo Reinhardt.

È un Si intenso invece quando sul parquet c’è Maximilian Levy, perché di sprinter come Maximilian Levy ce ne sono stati pochi, e non solo recentemente. E poco importa se nella sua carriera gli è mancata la medaglia d’oro alle Olimpiadi. Gli albi d’oro a volte contengono imperfezioni, soprattutto ai Giochi olimpici.

Maximilian Levy Six day Berlin 2023
L’addio al ciclismo di Maximilian Levy alla Sei giorni di Berlino 2023 – foto di Giovanni Battistuzzi

Maximilian Levy nella sua città e nel suo evento ha fatto l’ultimo giro di pista – e i duecento metri lanciati li ha chiusi con appena mezzo secondo in più del miglior tempo della giornata (in ogni caso diversi secondi in più rispetto al suo nove secondi e novantotto – di una carriera eccellente. Lo ha fatto da ex corridore, un campione che non poteva non avere però un saluto adeguato. E l’unico degno era alla Sei giorni di Berlino, nella “sua” Berlino, nel “suo” Velodrom, tra due file di biciclette verticali e con le ruote che giravano. Tratteneva a stento le lacrime Maximilian Levy, perché pure un Iron Max ha il diritto di commuoversi.

Anche Jackydelcampo si commuoveva, o quasi, al ricordo della sfida che aveva visto bambino tra Antonio Maspes e Sante Gaiardoni e tra Antonio Maspes e Vanni Pettenella. Quando si sa che qualcosa non tornerà mai più, la lacrimuccia tende a uscire e ci vuole una certa abilità a trattenerla.