La Strade Bianche è il terreno dei ricordi

La Strade Bianche è il terreno dei ricordi

05/03/2021 0 Di Giovanni Battistuzzi

La Strade Bianche è apparsa il 9 ottobre del 2007. Era ciò che non c’era e che non poteva non esserci, l’unione del presente con la nostalgia. Non poteva che funzionare


Tutto iniziò il 9 ottobre del 2007 da Gaiole in Chianti a Siena. Centottanta chilometri, sessanta sullo sterrato, centotredici corridori al via, quarantadue arrivati al traguardo. Primo Alexandr Kolobnev in quattro ore, quarantadue minuti e dieci secondi. Ultimo Marco Marcato, giunto quattordici minuti e quarantacinque secondi dopo il russo.

Quattordici edizioni sono poche per affezionarsi a una corsa. Quindici anni sono un attimo nella storia del ciclismo, ancor più veloce in quella della bicicletta. A volte però sono sufficienti, anzi più che sufficienti, quasi abbondanti. Perché la Strade Bianche è una corsa strana, un miscuglio di antico e ipermoderno, qualcosa che c’era ma fino a un certo punto, qualcosa che non esisteva e che è apparso. Non all’improvviso, perché versione veloce e competitiva di quel girovagare attorno alla modernità che è L’Eroica. Ciclostorica per definizione, ma molto di più per realtà, un universo a parte del pedalare, che ha riaperto un mondo che la bicicletta pareva aver dimenticato, quello della polvere.

Con L’Eroica la Strade Bianche ha condiviso la partenza per sette edizioni: Gaiole in Chianti. Normalità per due creature che hanno un unico padre: Giancarlo Brocci. Un padre che però almeno la Strade Bianche ha messo da parte. Il ciclismo non sempre è galantuomo, mica come la bicicletta.

La Strade Bianche era una sorpresa, un ingresso nei ricordi, immagini in bianco e nero che si facevano a colori. Era la fisionomia dei campioni di un tempo pedalanti su strade che l’asfalto non l’avevano mai visto, che si confondeva, per uno strano gioco di allusioni, con quelli moderni.

La Strade Bianche era ciò che non c’era e che non poteva non esserci, l’unione del presente con la nostalgia. Non poteva che funzionare. È classica non, forse, per appartenenza ciclistica, ma per evidenza, per aderenza alla definizione: ciò che è modello di un genere, di un gusto, di una maniera artistica, che forma quindi una tradizione o è legato a quella che generalmente viene considerata la tradizione migliore, almeno per la Treccani.

La Strade Bianche se ne sbatte delle definizioni, è un luogo a parte. Attraente e respingente allo stesso tempo. È anticipatrice (e inseguitrice) di un altro modo di intere il ciclismo, quello che allarga i confini del pedalabile a tutto l’orizzonte, che non ha bisogno di asfalto per far scorrere le ruote. Ha a che fare con la libertà di conquista, quella di muovere le pedivelle anche lontano dagli agi della modernità. È da qualche anno che tutto ciò lo chiamano gravel, che poi è ghiaia, almeno al di qua delle Alpi. Nome nuovo per un concetto antico, quello di prendersi tutto, tanto basta poco: due gambe, una bicicletta, il piacere di faticare seduti su di una sella.

La Strade Bianche è una corsa furba, intelligente, mimetica. La polvere degli sterri confonde, sfuma gli orizzonti, esalta la fantasia. È immaginazione, quella buona per trovare comodità tra terra, ghiaia e fango, quando il cielo decide di essere protagonista. È una corsa divisiva, perché l’altimetria è quella che è, secca e appuntita, le strade sono quello che sono, contorte, attorcigliate, buone per trattori e passeggiate. È una corsa unificante, unisce ambizioni: dagli ex ciclocrossisti ai cacciatori di classiche del nord, dagli uomini da giri a quelli amanti delle missioni impossibili, uomini sempre in fuga, gente a cui mal si addice lo stare in gruppo. Tutti ci credono, sperano, auspicano di poterla conquistare.

La Strade Bianche è stata ripartenza ciclistica fuori stagione. L’anno scorso si è messa il vestito estivo, calda polvere e fiato corto, prima grande gara dopo la pausa pandemica. È finita con Wout Van Aert che si è preso ciò che aveva visto sfuggirgli due anni prima, stremato dal fango e dalla novità.

Proverà a difendere la conquista estiva nell’inverno senese. Idea di molti. Da Greg Van Avermaet – “una delle gare più belle di tutta la stagione”, sostiene da anni – al rivale di sempre, Mathieu van der Poel, da Jakob Fuglsang a Julian Alaphilippe in maglia iridata, da Alberto Bettiol a Simon Yates, da Tadej Pogačar a Tim Wellens.

Un Bignami di gara. Tiene dentro tutto, nessuno escluso.