
Strade Bianche. Pogačar a forza di essere vento
05/03/2022Tadej Pogačar ha vinto la Strade Bianche 2022 (davanti ad Alejandro Valverde) dopo 50 chilometri di fuga solitaria
Se lo fila mai nessuno il vento qui da noi. Ché tanto è roba da mare e da Nord, si pensa. È lassù, al Nord, che spazza e spariglia, che rende la pianura montagna. Qui le montagne ci sono, a tal punto che il vento non serve. Lo tengono altrove. E se non ci sono i monti, ecco le colline, che sono più colline che lassù, al Nord. Più alte e abbondanti, più spaziose e più accoglienti. E anche tra i colli il vento non batte, accarezza.
Anche per questo se lo fila mai nessuno il vento. Pure le biciclette lo considerano il giusto, che è sempre poco, si fanno turbare da altri pensieri. Dal sole che le fa boccheggiare; dalla pioggia che le fa tribolare.
Il vento però ogni tanto si adira di questo difetto di credito. E decide di farsi sentire, di prendersi la considerazione che crede di meritare. E così ulula, sibila, sospinge. E quando spira lateralmente al procedere delle biciclette le rende incerte, tremule come un pensiero tentennante. Ci vuole fermezza per pedalare nel vento.
È sullo sterrato di Lucignano d’Asso, un centinaio di chilometri dall’arrivo, che il vento si prende il proscenio della Strade Bianche. Trasporta al suolo l’incerto avanzare di un uomo della Alpecin-Fenix e con lui mezzo gruppo.
Un tuttigiùperterra teatrale, di quelli che fanno strabuzzare gli occhi per la dinamicità e la plasticità della scena. Julian Alaphilippe che fa una capriola in aria e atterra di culo, uomini che volano di qua e di là, che lasciano la ghiaia e invadono erba e terra, invadono il fondale.
La polvere che già tutto invadeva, diventa predominante, conquista tutto e tutti. Chi resta in piedi si guarda attorno, quasi incredulo. Continua o riparte, ognun per sé e Eolo per tutti.
La Strade Bianche è sempre stata un gioco d’equilibrio, lo sterrato prevede funambolismo e idee chiare, non ammette esitazioni o insicurezze.
È fatta così questa corsa. Ci si può far niente. L’aveva capita da subito Aleksandr Kolobnev. “C’è nient’altro da fare se non muovere i pedali e non pensarci. Se lo fai ti ritrovi a terra. Per andar forte qui serve sentimento e intuizione”, disse qualche decina di minuti dopo essere arrivato a braccia alzate in piazza del Campo. Primo della storia, si chiamava Eroica Monte Paschi, era il 2007.
Tadej Pogačar probabilmente la prima Strade Bianche nemmeno l’ha vista. Questa però difficilmente la dimenticherà. Perché non si dimenticano cinquanta chilometri di solitudine strappata al gruppo e al vento a forza di essere vento. Perché in vento si è trasformato Pogačar. Poteva far altro. Serviva questo per non farsi travolgere e così travolgere gli altri.
Sulle Sante Marie ha allungato, quasi a vedere chi ci stava a seguirlo, quasi a chiedere agli altri: mi seguite? Un invito che nessuno ha colto e accolto. Si è guardato alle spalle, ha visto lo spazio, si è detto perché no. Aveva bisogno di altro. La speranza di trovarsi il vento sulla schiena a sospingerlo non l’ha nemmeno sfiorato. Se ne frega di questi dettagli chi in vento si è trasformato.
Alejandro Valverde è stato il primo a complimentarsi con lui all’arrivo. Gli è finito dietro di trentasette secondi. Non si fosse guardato attorno lo sloveno avrebbero potuto essere qualcuno in più, magari quarantuno, come gli anni che Valverde si porta in bicicletta e che nel sommarsi non sembrano tali, soprattutto non sembrano troppi.