Tadej Pogacar ti cambia dentro

Tadej Pogacar ti cambia dentro

11/07/2022 1 Di Giovanni Battistuzzi

C’è sempre un problema con i vincenti vincenti: prima o poi iniziano a stare sulle balle, o se non proprio sulle balle, quanto meno a stare meno simpatici. Perché quando uno forte forte emerge dal gruppo, almeno all’inizio, ci si concentra più sulla nuova straordinarietà che si ha davanti agli occhi, che rappresenta, che sul resto. Vengono mai in mente, all’inizio, tutti i “però…”, i “sì, ma….”, e tutte le altre elucubrazioni nelle quali prima o poi ci si ingarbuglia. Perché va sempre a finire così coi vincenti vincenti, ci si ritrova vittime, decisamente consapevoli, di questo giochetto che ti fa sperare che possa arrivare qualcuno a mettere i bastoni tra le ruote al campione di turno, soprattutto quando inizia a vincere presto e con una facilità che ci ricorda, anche se non vogliamo davvero rendercene conto, che siamo delle persone con un talento normale, o appena normale, o ancor meno di normale, mentre quello lì è uno che ne ha a pacchi di talento e le cose gli stanno andando bene proprio per questo.

Lo sport ha la capacità di metterci davanti agli occhi la realtà delle nostre vite come certi romanzi ben scritti. Il problema è che, molte volte, a questi romanzi facciamo le pulci sulle virgole e anche se ci piacciono, spesso prevalgono le pulci sul contesto.

A me i vincenti sono mai piaciuti troppo. Ho mai fatto troppo caso alle virgole sbagliate, ma forse m’ha sempre, sotto sotto, infastidito che andassero così forte e che, in un modo o nell’altro, andasse loro parecchio bene. Per questo amavo Marco Pantani. Perché Marco Pantani, o quelli come lui, avevano tutto per diventare vincenti vincenti ma c’era sempre qualcosa che li buttava a terra e li faceva riniziare se non da zero quanto meno da tre. C’era in Marco Pantani una sorta di calimerica attrazione alla sfortuna che me lo faceva amare, che lo rendeva, nella mia testa, vicino.

I vincenti vincenti li ho sempre guardati con un certo distacco, il distacco che mi sentivo addosso da loro, quella sensazione di non poter capire davvero cosa passasse nelle loro teste di vincenti vincenti, quasi fossimo due mondi diversissimi e incompatibili, impossibili da avvicinare. Anche per questo mi sono sempre piaciuti quelli che si devono inventare l’azione della vita per vincere, gli interpreti della fuga, dell’azione da lontano, da parecchio lontano, da mattina o ora di pranzo. Quelli li sentivo più vicini, perché dovevano colmare con l’inventiva e la caparbietà quel deficit di facilità di pedalata che avevano gli altri, quelli che immancabilmente si trovavano davanti quando contava essere davanti. E sentivo vicini soprattutto i gregari, che sono gente terra terra i gregari, gente che sa che il traguardo è cosa da privilegiati, ché per loro la meta è ben prima, devono dare tutto che lo striscione d’arrivo non si vede e neppure, molto spesso, si intuisce.

Uno dovrebbe mai dare troppo peso a quel che pensa, a ciò che ritiene immutabile. Perché va sempre a finire che si trova a fare i conti con la mutazione dell’immutabile e si chiede cosa sia successo e perché l’immutabile è mutato. Uno dovrebbe essere più indulgente con se stesso e viversi le cose che succedono, almeno nello sport, alla giornata, per come vengono. Soprattutto di sti tempi. Soprattutto con certi corridori in giro.

Perché questi tempi sono pieni di vincenti vincenti, ma sono vincenti vincenti che non riesco a guardare con distacco. Non che sia cambiata la mia naturale predisposizione ad abbracciare le cause perse, ad appassionarmi a quei corridori che un Giro, un Tour o una Vuelta non la vinceranno mai. Provo ancora piacere nel vedere le fughe disperate di Filippo Tagliani o di Filippo Fiorelli, quelle stile Die Hard di Lennard Kämna o Alessandro De Marchi o Thomas De Gendt, ma anche di Aimé, impazzisco per i pesci pilota come Maximiliano Richeze e Jacopo Guarnieri, ben più delle vittorie dei loro capitani. Non sono né pentito né cambiato.

A essere cambiati sono loro, i vincenti vincenti. Perché scorgo in loro qualcosa che non avevo mai scorto, ossia una straordinaria naturalezza a essere vincenti vincenti, una gioia totale nello stare al mondo, di stare così al mondo, soprattutto nessuna remora a rendere evidente, in ogni occasione, l’essere più veloci e resistenti degli altri. In loro non c’è nessuna ipocrisia, nessuna finzione, nessun tentativo di dissimulare. Sono forti, sanno di essere forti, vogliono dimostrarsi forti, i più forti di tutti. Ovunque e in qualsiasi momento. I calcoli li lasciano agli altri, a quelli che inseguono, a chi è obbligato a farli.

Se per Julian Alaphilippe, Wout van Aert e Mathieu van der Poel era più semplice appassionarsi, che secondo ormai sempre più desuete classi mentali erano corridori da classiche, per uno come Tadej Pogacar invece non era scontato. Ché Tadej Pogacar è un vincente vincente da corse a tappe. E non solo da corse a tappe, da tutto, ma questo è stato evidente dopo. E uno così, uno che è un gran birbone e promette di cannibalizzare qualsiasi corsa a tappe alla quale parteciperà, ha tutto per stare sulle balle, o quanto meno a stare sempre meno simpatico. E se non a stare sulle balle, o quanto meno a stare sempre meno simpatico, a sperare che prima o poi, e si va finire a pensare che é sempre meglio prima che poi, arrivi qualcuno, meglio ancora tanti, a spodestarlo, ma mica per sempre, per qualche volta almeno. Eravamo abituati a questo, a pensare questo – e se sono l’unico che in passato l’ha pensato, anche se poco un filo appena perché prevaleva un certo velato disinteresse per i vincenti vincenti, mi prendo le colpe per la mia meschinità di spirito –, un’abitudine però che Tadej Pogacar ha reso in qualche modo obsoleta.

Perché è vero che Tadej Pogacar è un vincente e vincente e che fosse per lui vincerebbe pure il traguardo volante del Lampredotto sulla provinciale tra Prato e Pistoia, ma lo fa senza il pietoso fare di chi vinceva e sembrava chiedere scusa per aver vinto, o l’arroganza di chi vinceva e si costruiva pian piano l’aura di superuomo, o soprattutto di chi doveva lasciare la vittoria agli altri, a quelli non vincenti vincenti, perché così si fa o si doveva fare perché non era bello e serviva mantenere rapporti interpersonali eleganti e piacevoli.


08/07/2022 – Tour de France 2022 – Etape 7 – Tomblaine / La Super Planche des Belles Filles (176,3km) – POGACAR Tadej (UAE TEAM EMIRATES)

C’è niente di tutto questo in Tadej Pogacar. C’è solo una voglia matta di fare per bene le cose e nessuna paura di dover sottostare a regole non scritte, che poi sono regole che hanno scritto sempre e soltanto quelli non vincenti vincenti per fare pressione sui vincenti vincenti, tipo il detto che non si picchiano le persone con gli occhiali, regola evidentemente messa in giro da una persona con gli occhiali.

Tadej Pogacar non ha paura degli avversari, li rispetta o almeno non ha mai dato a vedere il contrario, ma non fa i conti su di loro. In questi anni ha fatto i conti solo su se stesso. E se sentiva la gamba buona, il che è accaduto spesso e volentieri, partiva e non si voltava, partiva e non aveva paura di stravolgere la corsa e di pedalare a lungo in solitudine. Allo stesso modo di Wout van Aert e Mathieu van der Poel. Corridori capaci anche di perdere pur di vincere a modo loro: van Aert l’ha fatto al Tour, inseguendo la mattata invece dei calcoli sull’abaco. E anche su salite o su percorsi nei quali gli economi del pedale suggeriscono parsimonia, Tadej Pogacar se ne è sempre fregato della parsimonia, ha tentato il colpo, l’allungo, magari per raccogliere poco, ma quel poco era abbastanza per colmare, almeno in parte, il suo grande appetito da vincente vincente. Anche Tadej Pogacar è disposto a perdere pur di vincere a modo suo.

È un bel problema avere a che fare con uno come Tadej Pogacar. Ma è un problema che lascio ai corridori, ché c’è qualcosa di sbagliato nel crearsi problemi che non ci sono quando si hanno davanti agli occhi le cose belle.